Pier Paolo Pasolini e la censura

Francesco Saturno

Aprile 8, 2022

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Pier Paolo Pasolini e la censura

La critica di Pier Paolo Pasolini

Poeta, drammaturgo, scrittore, saggista, regista. Pier Paolo Pasolini resta una delle personalità più controverse, polimorfe e affascinanti del panorama culturale italiano. Anche dopo la sua morte, i suoi messaggi e le sue parole risuonano attraverso la voce autorevole di un pensatore scomodo e acuto, pronto a rivendicare la sua vita in virtù delle sue idee.

Se nelle idee di Pasolini l’arte è politica e l’estetica è etica, ogni forma artistica deve salvaguardare questi due principi concettuali. Nella penna dello scrittore, così come nelle scene e nei temi sollevati dai suoi film, si può rintracciare lo sguardo crudo e incisivo di cui si serviva per leggere la realtà.

La critica di Pasolini non è solo rivolta a una civiltà che sta cambiando – si sa bene che fu uno dei massimi esponenti della critica alla cosiddetta “società dei consumi”, galoppante in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta – ma anche a una rappresentazione dell’uomo distorta, filtrata nei suoi aspetti più dissacranti. Lui stesso li mette in luce con un’indagine minuziosa sulla verità esistenziale insita nei più o meno banali gesti umani.

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Pier Paolo Pasolini

Nella sua poetica Pasolini ricerca ciò che si cela dietro la menzogna di una borghesia ormai perbenista. Mette al vaglio delle sue narrazioni diegetiche e mimetiche l’essere umano in quanto alienato nella società dall’omologazione culturale.

Il mezzo per farlo è, d’altra parte, un linguaggio a tratti licenzioso, che serve per evidenziare le contraddizioni di un’omologazione culturale contro cui si leva il tono aspro dell’artista friulano. È così che, nella sua vita, «il dissidio irrisolto tra vita e storia, corpo e ragione, individuo e comunità, mito e demitizzazione, le metamorfosi del potere e la resistenza della parola» (come mette in luce Massimo Recalcati in Pasolini: il fantasma dell’Origine) prendono forma e si rilanciano nelle sue opere.

L’opera di Pasolini è, in fondo, un’opera psicologicamente e filosoficamente complessa, che cerca di seguire il filo di una realtà slabbrata, decadente, fotografata nei suoi aspetti più turpi o in quelli più vivaci – sempre in una tensione conflittuale tra vita e morte, origine e destino.

Pasolini accusa il capitalismo di rendere l’uomo contemporaneo privo di aspirazioni interiori, vittima degli oggetti esterni, fruitore e al tempo stesso succube di ciò che consuma.

Per Pasolini in quegli anni il volto del potere è cambiato, smarrendo la sua azione verticale, patriarcale. Ciò che gli viene sostituito è il potere orizzontale degli oggetti di consumo, ovunque e dappertutto, in un movimento che porta il cittadino a essere costantemente controllato da essi. La critica nei confronti di questi aspetti della società si fa allora serrata e feroce; attraversa la storia, le istituzioni, il sistema. Ma questa critica è anche generatrice di un’idea alternativa di stato e istituzioni.

Si possono ritrovare le tracce di un’onda di pensiero influenzata dalle teorie di Heidegger, Foucault, Marcuse e Lacan sul capitalismo e sulla tecnica, sui raggi del potere massmediatico e sugli effetti che hanno sulle persone.

Una certa cultura dominante si stava imponendo. Pasolini la rappresentò e fu una voce dissidente.

La censura a Pasolini

Pasolini aveva cinquantatré anni quando scomparve nel mistero di una morte che lo sottrasse al suo impegno intellettuale e politico. È nel suo fervore sociale che noi possiamo rintracciare ancora oggi i bagliori lungimiranti di un’etica che non aveva paura di essere tacciata d’anticonformismo.

La sua lungimiranza intellettuale ancora oggi stupisce. Un romanzo scarno e violento come Ragazzi di vita (1955) già contiene, al suo interno, l’evolversi più o meno contemporaneo della degradazione emotiva nei giovani.

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Il romanzo “Ragazzi di vita” di P.P. Pasolini

In fondo la stessa probabile matrice fascista, a cui si attribuisce il suo omicidio, è figlia di quella degradazione propria della società dei consumi e dello spettacolo. Questa, se si vanno a seguire altri casi di cronaca nera (emblematico, a questo proposito, il contemporaneo romanzo La città dei vivi di Nicola Lagioia), ancora oggi fa sentire la sua potenza distruttiva.

Il genio di Pasolini sta, probabilmente, proprio nel fatto di essere riuscito a cogliere profeticamente certe derive culturali ed esistenziali fin dalla loro fase germinale.

In effetti, abbiamo visto Pasolini denunciare i poteri forti, essere tacciato di “oscenità”. Tuttavia in lui viveva piuttosto lo spirito libero di una mente aperta, capace di vedere al di là di ciò che succedeva, quando succedeva. Lo abbiamo visto denunciare la massificazione della civiltà, l’oblio morale e personale a cui stava condannando la società l’Occidente capitalista. Lo abbiamo visto invocare il potere delle parole, dando senso a ciò che non ne aveva, inscenare le periferie d’Italia per ricordarci che la verità ultima di un popolo la si ritrova nelle pieghe amare di una periferia emarginata, piuttosto che nei centri commerciali delle metropoli.

Dunque, in fin dei conti, non è possibile inquadrare Pasolini in un’unica categoria. Artista poliedrico e sagace, poeta e intellettuale, è riuscito a creare scalpore e interrogativi a proposito di qualsiasi cosa raccontasse.

Dal punto di vista del cinema, lo scandalo prodotto dai suoi film lo si può cogliere anche attraverso la forbice della censura che ha cercato di tagliare o bandire i suoi messaggi.

Se ogni suo film era una dichiarazione scandalosa, un messaggio contro il cuore del potere, la carriera del Pasolini regista è stata da sempre minata, perseguitata e condannata dallo spettro della censura. In un paese probabilmente non ancora intellettualmente pronto, i suoi film destavano sgomento e fastidio.

Quando, nel 1961, Pasolini approda al cinema con Accattone, un film che indaga la violenza del sottoproletariato, la pellicola viene sin da subito ostacolata e censurata nelle sale. Storica è poi la vicenda anticlericale che impegna Pasolini con il film La ricotta (1963), elaborato durante la produzione di Mamma Roma (1962). Al termine del processo Pasolini venne condannato a quattro mesi di carcere.  

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Locandina di “Accattone” (1961)

Ancora, nel 1968, sarà Teorema a essere sequestrato per le accuse di scene sessuali troppo esplicite. Dal 1971 al 1974, Pasolini creerà poi la cosiddetta Trilogia della vita: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974), enfatizzando scene di lussuria che culmineranno nel suo ultimo film, nel 1975, Salò o le 120 giornate di Sodoma, uscito qualche giorno dopo la sua morte.

La critica non fece sconti. Applicò senza pietà la più profonda censura (anche attraverso tagli di alcune scene) alle rappresentazioni perverse e dirette cui si poteva assistere.

Erano scene che cercavano di esaltare il culto della corporeità e della sessualità, rappresentando, a volte anche con il rischio di risultare stucchevoli o volgari, il godimento acefalo dei corpi di fronte al sesso.

«Il reale senso del sesso nel mio film è quello che dicevo, cioè una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto. Tutto il sesso di de Sade, cioè il sadomasochismo di de Sade, ha dunque una funzione ben specifica, ben chiara. Cioè quella di rappresentare ciò che il potere fa del corpo umano, la riduzione del corpo umano alla cosa, la mercificazione del corpo. Cioè praticamente l’annullamento della personalità degli altri, dell’altro. È quindi un film non soltanto sul potere, ma su quello che io chiamo “l’anarchia del potere”, perché nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune. Questo vuole essere un film sull’inesistenza della storia. Cioè la storia così come vista dalla cultura eurocentrica, il razionalismo e l’empirismo occidentale da una parte, il marxismo dall’altra, nel film vuole essere dimostrato come inesistente… Beh! Non direi per i nostri giorni. Lo prendo come metafora del rapporto del potere con chi è subordinato al potere, e quindi vale in realtà per tutti. Evidentemente la spinta è venuta dal fatto che io detesto soprattutto il potere di oggi. È un potere che manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio di culture viventi, reali, precedenti».

(Pier Paolo Pasolini sul film Salò o le 120 giornate di Sodoma)

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Locandina di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975)

In definitiva, si può dire che la persecuzione ai danni della libertà intellettuale ed espressiva di Pasolini fu costante e lo accompagnò per tutta la sua vita, con ben trentatré processi in circa venticinque anni di produzione.

La rappresentazione dell’osceno, il racconto dell’aspetto perverso dell’umanità, la narrazione di un’esistenza che scende negli abissi dello scandalo, così come l’attenzione e la critica costanti alle pieghe culturali di certe derive sociali, rappresentano le giustificazioni addotte alla persecuzione di Pasolini e alla conseguente censura.

Dal punto di vista giudiziario a demonizzare pubblicamente Pasolini furono i processi. Mediaticamente fu la censura a tappargli la bocca. Sotto una prospettiva esistenziale fu invece la morte voluta da chissà chi a sopraffarlo e a zittirlo proprio quando il romanzo Petrolio (ancora in stesura all’ora della sua morte nel 1975, pubblicato incompleto solo quasi vent’anni dopo nel 1992) venne censurato e, seppur pronto, Salò e le 120 giornate di Sodoma ancora non era uscito nelle sale.

Cosa ne resta oggi?

Resta l’eco forte di una voce scomoda, pronta a imbattersi nella censura pur di cercare di rappresentare la verità. Ciò che le manca per essere detta, ciò che di oscuro e labirintico, ammaliante e sconcertante c’è in ciò che invece se ne può dire.

Dall’innominabilità della verità fino alla rappresentazione dell’indicibile, l’esistenza personale e professionale di Pasolini si è retta sul binario invisibile di un intellettuale che cerca di modificare dall’interno la cultura cui appartiene e che resterà, negli anni a seguire, una luce in fondo al tunnel di un pensiero che, a volte, si smarrisce di fronte a ciò che accade.

Per fare questo Pasolini si è dovuto battere contro le denunce e la censura, contro quella “cultura della cancellazione” che andava contro il suo politicamente scorretto. Questo ci ricorda soltanto che per dire quel che vale la pena di essere detto non sempre occorre l’approvazione di chi ci circonda.

«Il successo non è niente. Il successo è l’altra faccia della persecuzione. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo».

(Pier Paolo Pasolini)

Leggi anche: Comizi pasoliniani: Perché Pier Paolo Pasolini

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