Per ballare un tango, si sa, ci vogliono due corpi. Due anime perdute che nel calore improvviso dell’incontro facciano di due fragilità un solo desiderio. Due solitudini mosse da un unico folle impeto, tale che uno in nome dell’amore per l’altro mandi a morte se stesso.
E proprio questo numero, il due, è ricorrente, forse non accidentalmente, nella lunga vicenda di Ultimo tango a Parigi, tra le maggiori opere di Bernardo Bertolucci. Il 1972 è l’anno del suo debutto, il 2002 quello in cui l’American Film Institute lo ha inserito al 48º posto della lista dei “100 migliori film sentimentali di tutti i tempi” e il 2022 quello del suo 50esimo anniversario.
Il tango disperato del cinico Paul, interpretato da uno straordinario Marlon Brando, e della tenera Jeanne, la giovanissima Maria Schneider, coreografato da Bernardo Bertolucci, ha segnato un punto altissimo e irripetibile del cinema italiano. Manifesto di un mondo ormai sottosopra, tanto spaesato quanto feroce. Il quale, pur insofferente degli stilemi culturali del pre-Sessantotto, presentava ancora delle notevoli sacche di resistenza neoconservatrici.
Uscito dopo Il conformista, Ultimo tango a Parigi è passato alla storia come il film più anticonformista di tutti.
Nel languore di una Parigi fumosa (la magistrale fotografia di Vittorio Storaro è riuscita a renderla tattile nel suo mistero, mentre l’intenso sassofono di Gato Barbieri ne ha sublimato ancora di più la carnalità decadente) un uomo e una donna sovvertono le consuete regole di coppia e, giocando all’anonimato, si reinventano una sessualità libera, senza i confini imposti dalla borghesia.
Tuttavia, Paul e Jeanne non sono nient’altro che due simulacri danzanti, due ombre derelitte, uno ancorato a un passato pentito e ingombrante, l’altra lanciata verso un futuro già sfatto e senza speranza.
«Per Ultimo Tango a Parigi sono partito da Il piacere del testo di Roland Barthes. Ho agito tutto al contrario di quanto dice la scuola, inseguendo piuttosto il piacere che si può trarre dalla contaminazione di un testo, grazie al miscuglio di vari linguaggi. Pensando al Kamasutra, a tutte le combinazioni possibili di posizioni e di incastri, ho coniato il termine “camerasutra“».
-Bernardo Bertolucci
Il piacere di cui parla il regista parmense non è solo quello dato dall’amplesso, rintracciabile quindi nel coito, nella sua fase finale ed estrema, ma quella insita nel processo creativo e produttivo del testo filmico.
Infatti, la novità di Ultimo tango a Parigi, insieme alla sua conseguente scabrosità, non è stata quella di mostrare integralmente e a più riprese scene spinte di nudo. Anzi, è stata quella di rendere il motivo erotico il centro sperimentale incontrastato di tutta la narrazione. Si parla dell’Eros nella sua essenza originaria, teorizzata soprattutto nel Simposio di Platone, cioè quella di demone mediatore tra il mortale e l’immortale, tra l’umano e il divino, tra il sapere e il non sapere.
E, esattamente come il tango struggente ballato dai due protagonisti di Ultimo tango a Parigi, l’Eros lavora da ponte indissolubile tra la vita e la morte, tra la salvezza e la dannazione. Tra la costruzione e la distruzione di due identità, alla fine, sconosciute persino a loro stesse.
«E questo sarebbe l’erotismo?… È un gioco… è come giocare al dottore da bambini. Lo sai che qui, in questa casa, mi sembra di essere tornata all’infanzia?».
-Jeanne
L’appartamento disabitato in cui si danno appuntamento è anch’esso uno spazio franco, un vuoto potenziale, una terra di mezzo, un luogo non luogo, dove possono consumare di nascosto la loro passione con una violenza furibonda.
Il materasso sgangherato sul pavimento polveroso è come una zattera nel mare, l’armadio coperto dal lenzuolo sembra un fantasma. Tutto parla di quello che è già stato e che non è destinato a durare oltre. Tutto è in decomposizione, tutto trasuda di morte.
Del resto, Bertolucci confidò che Ultimo tango a Parigi si sarebbe potuto intitolare La petite mort, la piccola morte, ossia l’orgasmo.
Il quarantacinquenne americano Paul è ancora afflitto dalla vedovanza, non vuole né affezioni né legami di alcun tipo. All’opposto la diciannovenne Jeanne, fidanzata con il coetaneo Tom, velleitario cineasta di cui è la musa, cerca una scossa emozionale. «Perché no, l’amore non è pop, l’amore è una cosa seria», ribatte Jeanne. Ma seria solo se ci si diverte fino in fondo, rischiando di farsi e fare del male, senza riserve. Questo punto della sceneggiatura tradisce lo zampino complice e risolutivo di Alberto Moravia, la cui cifra poetica offre una finestra critica sapientemente realistica.
Nonostante le differenze apparentemente inconciliabili, entrambi fuggono dal torpore e dalla banalità di un’esistenza di cui non si sentono i veri attori, costretti nei panni di un’infelicità comoda. E sempre entrambi si sentono manchevoli di un’immagine proiettiva. Per lei, una figura maschile massiccia che le ricordi il padre, un colonnello morto nella guerra d’Algeria, per lui una figura femminile accudente, una moglie-madre nelle cui braccia ritornare in una posa quasi fetale.
La situazione iniziale si ribalterà in modo tragico, rivelandosi concretamente nell’assurdità del caso, che trova la sua innocenza nell’ultima provocazione. Quando a parti invertite Paul si invaghisce di Jeanne e questa prende contezza della tossicità del loro rapporto, il tango-inseguimento si farà metafora stessa e dell’angoscia del fallimento amoroso e dell’autodeterminazione come superamento di esso.
Sarà proprio lei ad ammazzarlo, con un colpo di pistola secco a coprire il suono supplichevole del suo nome come un singhiozzo, mentre fuori sorge l’alba. In bocca mastica convulsamente le parole che proferirà alla polizia in sua difesa: si tratta solo di un pazzo, di un ubriacone, di un violentatore.
Quando sempre Jeanne, del tutto ignara della deriva che avrebbe preso di lì a poco la faccenda, gli dice con fare scherzoso: «Abbiamo fatto un patto, sì o no?! Nessuno ci vedrà mai insieme! Potresti uccidermi e nessuno saprebbe che sei stato tu». Nessuno. Nient’altro che uno spettro.
«Tu vuoi solo un senso come antidoto alla noia
E vivi di nascosto come antidoto alla moda
Tu vorresti questo, quello più forte
Tu vuoi solo sesso come antidoto alla morte».
-Antidoto alla morte, Tutti Fenomeni
Il ritornello di Antidoto alla morte di Tutti Fenomeni, con la chiusa inedita di Francesco Bianconi, sembra essere stato scritto apposta per il tango di Paul e Jeanne. Un tango maledetto fin dai titoli di testa, dove compaiono i due ritratti distorti di Francis Bacon che presagiscono l’inizio della fine.
Ultimo tango a Parigi è la cruda parabola di un amore marcescente, nonché brillante ed esasperata allegoria della morte degli ideali in atto negli anni ’70.