Edward Hopper – Quando la suspense incontra la pittura

Miriam Oufatah

Marzo 25, 2021

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Le opere di Edward Hopper, celebre pittore americano della prima metà del Novecento, sono state ampiamente utilizzate nella cinematografia di tutti i tempi. I suoi quadri hanno forti connotati fotografici e psicologici che si prestano bene alla costruzione registica di alcuni generi.

Edward Hopper, che visse a cavallo tra la nascita e lo sviluppo del cinematografo, ne era anche un grande appassionato; non nascose mai il fatto che lui e il cinema si siano influenzati a vicenda. Molte delle sue opere nacquero infatti nella fase in cui il cinema in America assumeva sempre di più le caratteristiche di un’industria e di un’eccellenza della cultura statunitense.

Summer Evening (1947)

Hopper viene raggruppato in una corrente realista americana, che si prefigurava l’obiettivo di raccontare la routine dell’America contemporanea. Lo stile di Hopper, però, è facilmente riconoscibile e particolarmente specifico rispetto agli altri esponenti associati a quel periodo.

Questo a causa dei suoi soggiorni europei, che hanno contaminato tutte le sue opere. I poeti simbolisti francesi, la filosofia impressionista e le correnti pittoriche che avevano attraversato l’Europa, dal Rinascimento all’epoca fra le due guerre, alimentarono il suo talento.

Tornato in America tentò di dedicarsi alla narrazione della società tramite uno stile più conforme al realismo statunitense. Ma l’influenza europea continuò a plasmare il suo stile, portandolo a differenziare ed esplorare diverse fasi della sua pittura prima di imprimersi con uno stampo autoriale noto a tutti. Questo grazie anche a un’attenta sensibilità nel cogliere, nelle minuzie dell’ordinario, la meraviglia.

«Il mio scopo nel dipingere è sempre stata la più esatta trascrizione possibile della più intima impressione della natura».

(Edward Hopper)

Automat (1927)

Nei dipinti di Hopper i soggetti, la geometria e la luce fanno da protagonisti. Essi lavorano e raccontano in una combinazione equilibrata, senza caricare di pathos gli elementi o gli sfondi, scene di vita ordinaria negli attimi sospesi.

Hopper non rappresenta l’immagine come la vede, rappresenta ciò che sente, l’impressione che gli trasmette. Afferrando, con una delicata abilità, quei momenti intimi e inarrivabili che appartengono alla quotidianità di ognuno di noi. Circondando quegli attimi indefiniti di un contesto che li sapesse far emergere.

I suoi soggetti sono soli, ma non trasmettono, almeno per loro volontà, la sofferenza della solitudine come un tormento dell’esistenza. Piuttosto provocano un quesito, un’inquietudine diffusa nell’ambiente e consapevolmente inesaudibile. Somigliano più a individui che hanno scelto volontariamente di astrarsi dalla realtà, ritirandosi in uno spazio temporaneo e introiettato, che resta inaccessibile a chi guarda, nonostante rimangano corpi fisici presenti in un contesto sociale.

Sono personaggi, spesso donne, circondati da un alone di attesa e proiezione verso l’attimo successivo della loro esistenza. Come se si fossero persi, in un pensiero o in un’emozione nascosta, all’interno della realtà del quadro, che distende le prospettive del tempo. Questo accade anche quando ci sono più personaggi che interagiscono fra loro, essi restano comunque isolati in una sorta di intervallo segreto per lo spettatore, che però ne viene incuriosito e circondato. La luce in questa dimensione gioca un ruolo fondamentale.

Hopper

Room in New York (1932) e una scena di Shirley: Vision of Reality (2013) di Gustav Deutsch

Questa coscienza “muta” che emerge dagli elementi strutturali dell’immagine ha stimolato ampiamente la fantasia e la costruzione grafica dei cineasti. L’artista austriaco Gustav Deutsch nel film Shirley: Vision of Reality, ha realizzato tramite la successione di tredici quadri di Hopper la storia di evoluzione di un’attrice attraverso alcuni decenni decisivi del Novecento.

Il colore in questa condizione sospesa, a seconda della situazione scelta, entra in risonanza con la sensibilità di chi guarda e suscita una malinconica assenza, o speranza. La pastosità, l’opacità del colore, espande il momento al di fuori dell’impressione sulla tela, accogliendo in una dimensione quasi onirica lo spettatore; in un territorio ignoto della nostra psiche.

È la struttura intorno ai soggetti, le architetture e le ombre, con la loro essenzialità e rigidità che entrano in conflitto con i personaggi, a restituire concretezza e la sensazione, sospetta, di mancanza alla loro quotidianità.

Questo valore visivo ha ispirato molti dei registi che si sono confrontati con profonde tematiche psicologiche. Tra questi David Lynch, Dario Argento, Michelangelo Antonioni, i fratelli Coen e molti altri. Le atmosfere di Hopper si prestano bene a quel genere di storie che indagano le pulsioni inconsce dei loro protagonisti e hanno bisogno di simboli per esprimerle.

Hopper

Queensborough Bridge (1913) e Manhattan (1979) di Woody Allen

Woody Allen in Manhattan cita Hopper con il quadro Queensborough Bridge nella scena notturna del ponte. Un passaggio che accoglie, in quella scenografia scura e privata che concede una silenziosa e romantica intimità, un momento di approfondimento della relazione sentimentalmente acerba, incerta sul futuro, che lega due dei personaggi principali.

Allo stesso modo, con questa citazione pittorica e suggestiva della metropoli americana, il regista omaggia anche il sentimento di amore che lo lega a New York. Se si pensa al sogno americano, “la grande mela” è una dei maggiori rimandi nell’immaginario collettivo. La città culla delle aspirazioni e delle delusioni di tutti i sottogeneri che imbastiscono la trama di quel realismo americano di cui sono ugualmente riferimenti anche Il Grande Gatsby, Ernest Hemingway o Truman Capote.

Lo stile di Hopper contamina anche il cinema d’oltreoceano, ne è un esempio Wim Wenders, fervente appassionato del pittore tanto da dedicargli anche un cortometraggio. Il regista tedesco utilizza spesso le atmosfere dell’artista nei suoi film.

Si può notare in Paris, Texas dove le stazioni di servizio dei quadri Gas e Portrait of Orlens ispirano gli sfondi in cui evolve la storia. Oppure si coglie negli elementi architettonici che incorniciano i personaggi in alcune scene; la costruzione architettonica valorizza la dimensione errante, estraniante e di tormento solitario che insegue e logora i protagonisti del film. Questo grazie anche alle tinte della fotografia sempre allineate ai toni del pittore.

Hopper

House by the Railroad (1925) e Alfred Hitchcock sul set di Psycho (1960)

Hopper è in grado di trasmettere irrequietezza da elementi fissi, non solo nelle figure umane, ma anche negli edifici. Le geometrie paesaggistiche di House by the Railroad hanno affascinato Hitchcock, il maestro del brivido, che ha riprodotto la casa del quadro come set per il film Psycho.

Alfred Hitchcock, arrivando dal disegno e dall’illustrazione (sempre in ambito cinematografico) sa che la costruzione curata dell’immagine, l’utilizzo dei pesi percettivi, concede un piano in più su cui trasmettere informazioni. La scenografia per lui diventa uno spazio di manovra particolarmente incisivo e ricco di significati subliminali, utile per certi generi che hanno la necessità di indagare su più fronti le prospettive sommerse dei rapporti.

Il regista inglese si ispira frequentemente a Hopper nelle sue opere, specie per l’utilizzo di porte e finestre che isolano e catturano l’attenzione del pubblico senza forzarla a focalizzarsi solo con la cinepresa su un particolare. Come se ci fosse un doppio passaggio indotto nella mente di chi guarda, che rivela l’avanzamento di livello a più piani della storia. Permette così di fissarsi su più sezioni nello stesso frame. Questo stimola l’attenzione dello spettatore e lo rende più partecipe dell’avvicendarsi degli eventi, invece che imporre una visione data solo dai limiti spaziali della ripresa.

In questa dimensione geometrica e contemplativa emerge anche l’inconscio desiderio che stimolò uno degli impulsi originali della prima cinepresa. (Tant’è che uno dei nomi presi in considerazione per il cinematografo fu “domitor” dal latino dominator). Si tratta di quella volontà di dominare la scena, di guardare, di spiare voyeristicamente se stessi, una coppia, una persona dall’esterno senza che lo sappia.

Hopper

Night Windows (1928) e La finestra sul cortile (1954)

In questo La finestra sul cortile è l’esempio più lampante. Hitchcock rappresenta in una scenografia quasi tutta di interni, di scorci da finestre, la storia di Jeff. Un fotografo costretto alla temporanea immobilità, che passa l’estate a guardare i vicini, simbolo di situazioni ordinarie dell’America anni cinquanta. Una delle tematiche portanti si concentra sul mostrare diversi tipi di coppie, questo perché una delle domande che tormenta il protagonista è la volontà della sua fidanzata di sposarsi. Hitchcock così rivela vari stadi della relazione, anche i più oscuri.

«In un buon film il sonoro potrebbe sparire e il pubblico avrebbe comunque un’idea chiara di cosa stava succedendo».

(Alfred Hitchcock)

Hitchcock ci concede tramite l’inquadratura soggettiva dagli occhi di Jeff, come fa Hopper, di entrare nel punto di vista dell’osservatore e cogliere alcuni dettagli, teatralizzandoli. Sia per la staticità dei luoghi e il bisogno di animarli, agendo nello spazio sia per restituire quella sensazione di spettacolarizzazione della vita. Come se tutto il mondo, anche le vite dei vicini, fossero un intrattenimento. Come se imposte e finestre fossero i tendoni di un palcoscenico.

Nei quadri di Hopper questo movimento che anima la fissità della tela è dato dalla luce, dalla sensazione che è in grado di scaturire. E dal conflitto fra il piano spaziale e il piano interiore del soggetto. Concetto ripreso nel film dal sistema di illuminazione, progettato per accogliere le scene delle diverse case. Le luci di taglio, le ombre, l’alternanza delle fasi naturali di giorno e notte, amplificano o contrastano le impressioni che i personaggi/attori agiscono sulla scena.

La finestra sul cortile

L’osservazione della realtà, che stimola l’indagine artistica e viceversa, incanala l’energia generata dalla passività di chi guarda nel moto che attiva la tensione verso l’esterno. Spingendoci a riprodurre o ricercare quella sensazione. L’incertezza sull’esito, che ci concede la visione dall’esterno, accende una partecipazione empatica che non coinvolge solo nella didascalica sorpresa, ma passa attraverso il desiderio di sapere come andrà a finire.

Tramite la cinepresa di Hitchcock, la pittura di Hopper o la fotografia di Jeff, l’arte ci apre un nuovo orizzonte della consapevolezza. Abbiamo l’opportunità di attivarci nel guardare un film, una foto o un quadro e compartecipare a una storia. Questo ci aiuta a definire, nel piano sospeso, quella dimensione ansiosa e incerta del futuro che non possiamo conoscere, ma che abbiamo l’ambizione di cogliere nelle nostre vite.

La magia della suspense ci fa intuire e dilatare una parte di quello spazio che avvertiamo nella quotidianità e che ci cattura nelle opere di Hopper. A metà tra il mondo tangibile che ci ospita e la sovrapposizione di piani mentali che elaborano le percezioni di ciò che ci circonda. Offrendo l’occasione di espanderci in quello spasimo mostrato da Hitchcock verso l’ignota risoluzione degli eventi.

Leggi anche: Edward Hopper e Alfred Hitchcock – La Meraviglia delle Arti

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