Il montaggio nella Nouvelle Vague
«Le cinéma aujourdhui se fait un nouveau visage».
(Alexandre Astruc, Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo)
Il cinema, oggi, assume un nuovo volto. Così, Alexandre Astruc, critico e cineasta francese, preannuncia il cambiamento rivoluzionario che nella Parigi degli anni ’60 vede come protagonista l’arte dello schermo. Il cinema fino a quel momento aveva attirato su di sé tutta la cattiva coscienza, vedendosi spesso rivolta l’accusa di corrompere – quasi socraticamente – i giovani. Se gli stessi fratelli Lumière, inventori del cinematografo, ritenevano il cinema un’invenzione senza futuro, l’opera critica di numerose personalità di spicco nel panorama parigino di metà del secolo scorso, compreso Astruc, contribuì a rivalutare la straordinaria portata del mezzo cinematografico.
La rappresentazione cinematografica, da pura e semplice fonte di intrattenimento, viene riconosciuta finalmente tra le arti.
Settimo arrivato nel novero delle arti, il cinema è un’arte giovane, che deve ancora dispiegare pienamente le sue potenzialità inespresse. Presa consapevolezza del proprio statuto, esso, tuttavia, rivendica un linguaggio proprio e dei propri mezzi espressivi. La rappresentazione filmica non è più un mero prodotto commerciale. Il cineasta deve pertanto attribuire un’artisticità alla sua opera attraverso uno strumento particolare: la camera da presa. La cinepresa (caméra) sta al regista, come la penna (stylo) sta allo scrittore, il pennello al pittore. Da qui l’espressione emblematica impiegata da Astruc: caméra-stylo.
La riflessione proposta da Astruc ha costituito il sostrato su cui si è poi edificata la politica degli autori elaborata dai giovani critici dei Cahiers du cinéma, che avrebbero dato vita a una nuova tendenza del cinema francese: la Nouvelle Vague.
«Il cinema non è un mestiere. È un’arte».
(Jean-Luc Godard, Cahiers du cinéma, 1958)
Se il cinema è un’arte, anche il cineasta non deve limitarsi a essere un puro e semplice metteur en scène, ma ergersi a vero e proprio artista. Come illustra François Truffaut nel celebre saggio Une certaine tendance du cinéma français, un regista adempie al suo ruolo di autore se e solo se inserisce un tocco personale e riconoscibile tanto nel contenuto, quanto nello stile. Solo se condivide la sua prospettiva sul mondo. La sua arte si rivela non solo rispetto a che cosa dice, ma anche a come lo dice.
«Ciò che è importante è il tono, l’accento, la sfumatura, o come lo si voglia chiamare: cioè il punto di vista di un uomo, l’autore, questo male necessario, e l’atteggiamento che questo stesso uomo assume nei confronti di ciò che filma, e quindi nei confronti del mondo e di tutte le cose».
(Jacques Rivette, Dell’abiezione, 1961)
François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Éric Rohmer e Jacques Rivette vanno così a rivoluzionare il linguaggio cinematografico dalle sue fondamenta, sovvertendo le rigide regole del cinema classico e dando luce al cinema moderno.
Una nuova ondata (“Nouvelle Vague”, per l’appunto) scardina le solide convenzioni del découpage classico, fondato sull’idea di continuità e naturalezza della narrazione, per prediligere piuttosto una discontinuità del racconto, caratterizzato da lunghe inquadrature (piani sequenza e long take) e brusche interruzioni.
André Bazin e la teoria del linguaggio cinematografico
La teoria del linguaggio cinematografico che prende vita nelle rappresentazioni filmiche di questi cineasti avant-guardists è elaborata da André Bazin, colonna portante, nonché́ fondatore, dei Cahiers du cinéma. Bazin insiste sul carattere «ontologicamente reale» del cinema, che deve sempre e necessariamente mostrare la realtà possibile dell’azione, pena la validità e l’artisticità dell’opera.
Il «realismo ontologico» di cui deve farsi carico la rappresentazione cinematografica riflette l’idea secondo la quale l’arte dello schermo deve restituire il flusso perpetuo di tutto ciò che esiste, il movimento così come avviene nella realtà nuda e cruda.
Il teorico del cinema esprime, difatti, attraverso il concetto di «montaggio proibito», l’idea per la quale gli elementi di un’azione debbono essere inseriti all’interno della medesima inquadratura cosicché la vicenda appaia realistica.
Per esemplificare tale idea, ipotizziamo che il regista voglia rappresentare un uomo inseguito da una belva feroce: se tra le varie inquadrature non ce n’è neanche una che riunisca tutti gli elementi dell’azione, vale a dire che immortala la belva e l’uomo che corrono nella stessa immagine, e dunque i due sono separati ricorrendo agli stacchi di montaggio, non si mostra la continuità dell’azione come avverrebbe al di fuori della finzione narrativa e, pertanto, il montaggio è proibito.
Elemento fondamentale della teoria del linguaggio cinematografico ideata da Bazin è poi il concetto di “piano sequenza”: un’inquadratura la cui durata equivale a un’intera sequenza, senza stacchi di montaggio, in grado di restituire, così, il tempo reale dell’azione.
La settima arte non si erge a specchio della realtà esclusivamente dal punto di vista della spazialità e del movimento, ma anche sul piano temporale. Il cinema, per mezzo della straordinaria varietà dei suoi mezzi espressivi, si dimostra capace di rappresentare il tempo, tanto quello oggettivo – attraverso il piano sequenza e il long take – quanto quello soggettivo, proprio di una dimensione più coscienziale – mediante tagli di montaggio e inquadrature in soggettiva.
Rappresentare il tempo: piano-sequenza e jump-cut
Gli elementi essenziali delineati da Bazin prendono forma in maniera sublime nelle opere dei giovani cineasti che si pongono a manifesto programmatico di tale movimento.
Emblematico è il long take nel finale de I 400 colpi di François Truffaut: Antoine Doinel fugge verso il mare, e noi, con la cinepresa, corriamo insieme a lui. Come personaggi all’interno della finzione filmica, seguiamo il giovane protagonista nella sua corsa.
La scelta di optare per un piano sequenza rivela la volontà di restituire il tempo reale dell’azione: il tempo della narrazione coincide con quello della realtà.
Il cambio di prospettiva è rivoluzionario rispetto al cinema classico: il regista e gli spettatori in sala non guardano le vicende dall’alto, quasi come se fossero detentori di un sapere precluso agli attori delle stesse vicende. Il movimento della macchina da presa ci fa rivivere quella libertà e indeterminatezza tanto agognata dal giovane alter-ego di Truffaut, trasportandoci con sé verso un orizzonte indeterminato. Antoine sembra spalancare le porte per un futuro privo di regole e convenzioni, la stessa libertà conseguita dai giovani registi.
Tempo oggettivo e tempo soggettivo si incontrano fugacemente, per poi far sì che il secondo si imponga nell’inquadratura finale. Antoine guarda in macchina, violando una regola ferrea del cinema classico, e un fermo immagine ci permette di rendere assoluto, eterno un singolo istante. La narrazione cinematografica si interrompe, e noi spettatori sentiamo di fare intrusione nell’interiorità più profonda del giovane protagonista.
Allo stesso modo, rivoluzionario è il piano sequenza in cui Patricia e Michel si incamminano per i Campi Elisi in Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Lo spettatore ha l’impressione di seguire i personaggi in ogni gesto, a ogni passo, proprio come se stesse pedinando due ricercati che non si fanno scrupoli a darci le spalle e a perdersi tra la folla che passa dinnanzi alla macchina da presa. La scelta di uno stile quasi documentaristico restituisce spontaneità e immediatezza, consentendo allo spettatore di trascendere il proprio vissuto personale, di guardare, da prospettive sempre nuove, la vita che si manifesta nelle sue molteplici forme.
Totalmente immerso nelle vicende narrate, lo spettatore accompagna i due protagonisti nel loro tentativo di fuga e percepisce gli avvenimenti come se li stesse provando sulla propria pelle.
In tal senso, la narrazione cinematografica è sempre al presente e restituisce allo spettatore l’impressione di prenderne parte man mano che le azioni si fanno strada sullo schermo, come se prendessero vita contestualmente al nostro guardarle.
Se il piano sequenza consente di ritrarre il tempo oggettivo, i jump-cut, per converso, ci restituiscono una visione degli eventi filtrata dagli occhi dei protagonisti. La tecnica in questione comporta il taglio di uno o più fotogrammi all’interno della pellicola – inammissibile nel cinema classico, in cui sarebbe concepito come un errore del macchinista – per restituire un tempo dell’azione così com’è percepito dai personaggi che la compiono.
I due protagonisti decidono di fuggire in Italia, dopo che Michel si è macchiato dell’omicidio di un poliziotto, e per restituire la frenesia provata dai due protagonisti, i fotogrammi si succedono a un ritmo sostenuto, mostrando il mutamento dell’ambientazione intorno a loro mentre i due viaggiano a bordo di una cabriolet.
Il montaggio e la discontinuità della narrazione
I jump-cut, andando a costituire dei veri e propri tagli nel montaggio, restituiscono una narrazione degli eventi discontinua e alienante. Tale discontinuità del racconto è uno dei capisaldi della teoria del linguaggio cinematografico incarnata dai giovani registi della Nouvelle Vague, ma anche da registi che, pur non facendone espressamente parte, hanno risentito di questi cambiamenti rivoluzionari, cavalcando questa nuova ondata.
Alain Resnais, sebbene non abbia aderito programmaticamente alla Nouvelle Vague, ma a un movimento a esso parallelo, la Rive Gauche, influenza ed è influenzato in modo significativo dal prolifico scambio di idee con gli altri giovani cineasti.
Il suo sublime capolavoro, Hiroshima mon amour, presentato al Festival di Cannes nel 1959, riflette un’avversione verso le regole ferree di quel “cinema dei papà” che si voleva a tutti i costi contestare e superare, per prediligere una maggiore introspezione e attenzione alla soggettività nella presentazione degli eventi.
Il montaggio di questa pellicola straordinaria smantella infatti la logica del découpage classico, che prevedeva una successione impercettibile di inquadrature per restituire la successione lineare degli eventi.
Resnais presenta un film sulla memoria in cui un trauma individuale – la perdita della persona amata – e un trauma collettivo – il disastro atomico di Hiroshima – si intrecciano tanto da non poter più distinguere l’uno dall’altro. Il passato si innesta sul presente, offrendo una narrazione discontinua a tal punto che le due dimensioni temporali si sovrappongono senza soluzione di continuità. Le immagini prendono la forma di un flusso di coscienza che lascia piena espressione all’inconscio.
Oltre il montaggio del cinema classico
Questi giovani registi, come gli studenti che escono dalla fila e si disperdono per le strade di Parigi ne I 400 colpi, si ribellano alle regole del cinema classico, dando vita a un linguaggio del tutto inedito. Nel capolavoro di Truffaut, ad esempio, è l’adozione del campo e controcampo – caposaldo della narrazione tradizionale – nelle scene dialogate a entrare in crisi. Durante il colloquio con una psichiatra, in seguito al furto commesso, è solo Antoine a essere inquadrato. Questa scelta stilistica fa sì che sia solo lui e la sua interiorità l’indiscusso protagonista.
In Vivre sa vie, questo rifiuto delle convenzioni tradizionali prende ancora la forma di un mancato contro campo. In questo caso, tuttavia, più che rendere conto dell’interiorità di Anna Karina, che interpreta la parte di una prostituta, l’inquadratura di spalle ci restituisce una visione alienante e reificante del suo corpo, condivisa dagli uomini che si aggradano della sua compagnia.
La Nouvelle Vague si afferma pertanto come un’onda travolgente, pronta a portare con sé un cambiamento rivoluzionario all’interno dell’arte cinematografica. Se le trame dei film rappresentati da questi giovani cineasti sono spesso semplici spaccati di vita quotidiana, è lo stile a divenirne protagonista facendosi portatore di contenuto.