Hiroshima mon amour – Tra memoria e oblio

Miriam Oufatah

Ottobre 15, 2021

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Hiroshima mon amour diretto da Alain Resnais è uno dei film che apre la pista all’avvento della Nouvelle Vague. Il regista, al suo primo lungometraggio dopo diversi cortometraggi, attraverserà la corrente francese per vie traverse. Fornirà, con questo film, un esempio rivoluzionario di narrazione cinematografica. Verrà riconosciuto dai Cahiers du Cinéma come un autore libero di esprimere una novità, un autore originale da cui attingere per dare sostanza alla manifestazione completa della nuova onda.

Il soggetto e la sceneggiatura di Hiroshima mon amour vennero affidati dallo stesso Resnais alla penna di Marguerite Duras. Scrittrice nata nell’Indocina francese, autrice di Moderato cantabile e futura esponente della corrente letteraria del Nouveau Roman.

Incontrandosi, i due, decisero di non voler riproporre in maniera diretta il disastro di Hiroshima, ma avvertirono la necessità di mantenerne attivo il ricordo. Nel 1959 mezzo mondo cominciava a scordare il dramma della seconda guerra mondiale, l’altra metà viveva in un perenne stato di allerta a causa della guerra fredda, mentre l’ombra del nucleare si estendeva su tutto il globo. Tant’è che degli stessi anni è il romanzo Il dottor Stranamore ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba da cui Kubrick trarrà il celebre film.

Alain Resnais.

Così Resnais e la Duras utilizzeranno la città come palcoscenico in cui si svolgeranno le vicende di un Lui e una Lei che s’innamorano e si scontrano con l’inevitabilità del tempo di divenire. Hiroshima così viene evocata. L’intero film è costruito sull’evocazione, nel senso proprio di suggestionare la memoria dello spettatore sull’evento e di chiamare fuori dagli spazi, dai personaggi e dagli intrecci, i ricordi, i traumi e i sentimenti dei protagonisti, di cui fanno parte anche, e soprattutto, i loro luoghi di appartenenza.

Hiroshima mon amour è strutturato come un concerto. Una partitura suddivisibile in tre periodi più l’introduzione, fatta di immagini a contrasto fra le ricostruzioni di Hiroshima devastata e l’abbraccio sensuale fra due corpi nella cenere.

L’abilità di Resnais, che scombina la struttura classica cinematografica (aprendo la pista a nuove idee di montaggio che saranno frequenti nella Nouvelle Vague), sta nel far intersecare la poetica accurata delle immagini, lo sviluppo della storia, la musica e i periodi di riflessione, con una precisione quasi geometrica, come se queste fossero le coordinate delle quattro dimensioni della realtà del film. Resnais sposta l’attenzione abilmente, anche di netto, dentro e fuori, dal presente ai ricordi.

È un film collage che somiglia a un sogno lucido dell’autore in cui si elaborano, tramite salti temporali, gli impulsi sotterrati nell’inconscio della protagonista. La struttura del cinema del regista, per quanto sia autoriale, ha una grossa impronta estetica. Il linguaggio del cinema viene utilizzato per veicolare un’estetica emotiva della storia, ma ci trascina in un luogo, costruito, dove i fenomeni, anche contradditori che agiscono nello spazio, lasciano emergere una morale. Resnais, che ha sempre veicolato anche un messaggio politico nelle sue pellicole, resta un autore ambiguo e obliquo nella corrente.  

Guernica, Pablo Picasso, 1937.

Alain Resnais era un appassionato di pittura, e come in una Guernica giapponese, il regista, frammenta e ricompone i volumi dei personaggi e della storia, imprimendoli su pellicola.

Come se Lui e Lei fossero i soggetti di un quadro cubista, sospesi per trentasei ore dalla loro vita, fregando, per un periodo incidente, lo scorrere del tempo. I personaggi sono a pezzi, dei loro ricordi conservano momenti. Hiroshima è una città fatta di frammenti, è una città che è stata fatta a pezzi. È una città che per sua struttura morfologica è fatta di isolotti nella foce di un fiume.

Marguerite Duras interviene in questa progettazione armonizzando in maniera sinuosa le forme geometriche concesse dalla struttura di Resnais. Le sue non sono le battute esplicite dei dialoghi dei film mainstream. Lei mette in gioco le pedine cariche del loro fardello esistenziale e le lascia cascare, grazie alla gravità degli eventi, nella rete intrecciata dal regista, deformando con il linguaggio la percezione della loro intimità.

La realtà agisce su di loro, non come ostacolo da superare nel viaggio dell’eroe, ma come naturale concatenazione degli eventi, più fedeli possibile alla realtà. Così come si preoccuperà di fare la Nouvelle Vague nel decennio successivo, mostrando le ambiguità dell’individuo di fronte alle forze che agiscono su di esso.  

La Duras, con i suoi monologhi fatti di frasi brevi, tra lirismo e poesia, evocando nella dicotomia di due frasi il senso di ciò che vuole comunicare, si insinua nel presagio malinconico di un’inevitabile nuova separazione. Una nuova guerra nucleare. Una perpetua ciclicità, in cui tutti noi esseri umani, a causa dell’oblio, siamo portati a ripetere i nostri errori e le nostre sofferenze. Con i dialoghi a contrasto, come fossero il botta e risposta di una danza fra combattenti, la Duras sospinge i due protagonisti a cascare uno contro l’altra, ma non li fa toccare mai nella loro continua opposizione, nelle intenzioni che agiscono contrarie.

Marguerite Duras.

Se, per ironia della sorte, coinvolgessimo nella lettura di Hiroshima mon amour, il padre della formula che ha dato i natali alla bomba atomica, Einstein, e le sue teorie fisiche, potremmo dire che Reisnas costruisce uno spaziotempo a Hiroshima, un cronotopo, in cui costringe i personaggi a interagire come gli atomi di uranio nella bomba.

I protagonisti gravitano come due stelle binarie una nell’orbita dell’altra, attratte entrambe da un centro di massa comune esterno a loro. Il film così sprigiona un’energia caotica e nostalgica che ci cattura in un piano onirico e di riflessione. Un pensiero che è possibile solo calandoci, nella seconda parte del film, in un’atmosfera più profonda e celata, data dalla scelta di un’ambientazione notturna illuminata solo dalle insegne di una città sempre sveglia.

Lui e Lei sono due persone danneggiate dagli echi della guerra, dalle onde, dalle radiazioni, che arrivano anche anni dopo e creano delle perturbazioni, delle deformazioni nel loro spaziotempo. Il tempo della loro storia, la conclusione di essa, vive in un altrove assoluto: è già successa, ma non è ancora arrivata.

Lui è un architetto, simbolo della ricostruzione di Hiroshima. Lui è il futuro. È al fronte quando Little Boy viene sganciata su casa sua. Hiroshima ha l’aria di un luogo inconsolabile. Hiroshima mon amour nell’introduzione comincia a presentarci uno dei temi portanti dell’opera: il racconto di un ricordo non è l’evento stesso. Nemmeno le fotografie lo sono, nemmeno le cicatrici, ma è solo con la distanza che concede il tempo che si possono comprendere gli eventi. È una tematica cara a Resnais, amante di Proust e Čhecov, quella della memoria e del tempo.

Hiroshima mon amour
Lei e Lui in una scena di “Hiroshima mon amour”.

La città ricostruita, il museo della pace, hanno un’aria lugubre. L’immagine della guida turistica che sorride nell’atomic tour, stimola quell’inquietudine ambigua, quasi fastidiosa, che pone noi turisti-spettatori a farci delle domande. L’oblio assume vesti più o meno virtuose: è necessario dimenticare l’orrore per poter ricominciare a vivere? O ricordare la storia per evitare che si ripeta?

Hiroshima è un evento indelebile, ma che scompare dalla realtà oggettiva, lasciando solo cicatrici e neanche più macerie come realtà tangibili, solo musei. Hiroshima però è intrisa di sofferenza, un dolore che deforma, “mal-forma” le generazioni future. Un dolore che si insinua nelle riprese dei cittadini anziani sopravvissuti e sospesi in un silenzio irraggiungibile.

Lei è un attrice francese. Lei è il passato. Si trova a Hiroshima per girare un film di propaganda pacifista. È una donna sospesa in un non-luogo della memoria, un posto in cui una parte di lei si è incastrata e da cui non vuole uscire. Un posto abitato dall’amore per un soldato tedesco ucciso proprio quando la guerra ormai stava terminando. Un amore che lei trasfigura automaticamente sul giapponese, ponendo una sorta di filtro, una barriera, con cui setaccia la sua intera esistenza. Davanti a una birra, in un gioco di ruoli quasi da psicodramma, Lui impersona l’amato soldato e Lei, per la prima volta, espone il racconto di quel trauma. Beve, come un eroe greco sulle sponde del Lete, evocando dalla memoria gli spiriti nascosti di quella giovinezza e comincia, così, a scordare.

I flashback di Nevers sono affidati a un direttore della fotografia francese, diverso da quello giapponese, per restituire un contrasto ancora più elevato, ma fedele. Le riprese sono dei campi lunghi o campi medi, come se Lei riguardasse il film del suo ricordo, condendolo di impressioni, di vaghezza. La distanza con cui osserva il passato le piomba addosso con una consapevolezza annichilente: anche il giapponese verrà dimenticato.

Hiroshima mon amour
Lui e Lei nell’incontro finale.

Lei: «Come te anch’io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la smemoratezza e come te ho dimenticato. Come te ho desiderato avere un’inconsolabile memoria, una memoria fatta d’ombra e di pietra. Ho lottato da sola con violenza ogni giorno contro l’orrore di non poter più comprendere il perché di questo ricordo. Come te ho dimenticato. Perché negare l’evidente necessità del ricordo?».

La pazzia, la “malvagità” che Lei avverte tutto attorno a seguito del lutto, che all’improvviso poi svanisce, è una proiezione del dolore che in qualche modo l’aiuta a sopportarlo. Una bolla che la protegge anche dai suoi concittadini che sono così incattiviti dalla guerra che la umiliano. Quella follia che la coglie, è uno stato in cui lei casca per restare nella dimensione del dolore, ci si spalma dentro.

L’andare oltre conserva una sottile differenza: non significherebbe solo dimenticare nel senso letterale di “allontanare dalla mente”, ma significherebbe scordare nel senso più poetico del termine, levare dal cuore. Rimuovere il soldato dall’antico posto destinato alla memoria. Lei, parlandone, ricade ipnotizzata in quella dimensione del dolore ormai incomprensibile appieno, ma non in quel ricordo, non in quell’attimo. Il ricordo del dolore è qualcosa, una testimonianza invisibile ma avvertibile. Il racconto del ricordo, inevitabilmente scolorito dal tempo, dall’unica visione, non è più.

Lei sembra sceglierla Hiroshima, come se cercasse un luogo sofferente in cui entrare in risonanza, in cui vivere in silenzio la pienezza di quel dolore che si porta appresso. Entrambe le città scelte, ai poli opposti del mondo, sono fondate su un fiume: l’Ōta a Hiroshima e la Loira a Nevers (che la protagonista ci dice sempre asciutto, deviato), quasi fossero simbolici del fluire emotivo dei due personaggi. Ricordandoci come nulla è definitivo, tutto scorre, tutto passa.

Hiroshima mon amour è un film che agisce nel mezzo del guado, in un passaggio pericoloso che rischia di trascinare in quei luoghi senza ritorno dell’inconscio.

Dilata l’attimo e agisce nell’energia generata dai contrasti. A metà tra due epoche, non solo cinematografiche, incerte. Il passato alle spalle, maestro indispensabile, ma che con i suoi traumi s’avvinghia negli angoli della mente, incatenandoli. Davanti il futuro che li aspira nell’incertezza del vuoto possibile, desiderandoli leggeri. E proprio quando si riconoscono completi per quello che sono nel presente, il tempo è già finito.

Leggi anche: Nouvelle vague: Manifesto cinefilo-esistenziale di una generazione

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