Immaginiamo 2046 diretto da Marguerite Duras – La Maladie de la Mort

Gianluca Colella

Settembre 8, 2021

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Già altrove la relazione tra In the Mood for Love, 2046 e la poetica dell’amore di Wong Kar-wai è stata approfondita. Indipendentemente dall’amore per questi due film, dall’amore per l’autore e dall’amore per l’amore in sé, risulta abbastanza facile trovare temi da affrontare rispetto a quest’opera.

Tuttavia, qui sarà fatta una speculazione di altra natura, che parte dalla fantasia di far dialogare il significato del film con un’opera di Marguerite Duras, La Maladie de la Mort, racconto dalla radicale potenza depressiva.

Scegliere 2046 piuttosto che In the Mood for Love risponde a un’esigenza emotiva e ideologica: differentemente dal coinvolgimento che i protagonisti hanno nel primo film, il secondo è caratterizzato dalla presenza di uno scrittore senza tempo che si sforza di donare un senso a questa assenza di tempo. Memoria, donne e anaffettività permangono laddove prende vita la costruzione di una narrazione sulla possibilità.

Amore a parte, è noto all’esperienza dell’uomo che lo sviluppo delle possibilità della vita si arresta quando le possibilità incontrano dei limiti, siano essi dovuti a ostacoli soggettivi oppure oggettivi, controllabili o non.

La Maladie de la Mort potrebbe essere considerato il paradosso definitivo con cui 2046 si scontra, poiché il racconto esprime tutte le turbolenze emotive che discendono sull’uomo dal vivere in un limite continuo, un’incapacità di amare tanto abissale quanto (in)comprensibile.

2046: un rapporto “ci sarà stato”

In un universo parallelo, 2046 è diretto da Marguerite Duras. In che modo la "maladie de la mort" influenza Wong Kar-wai?

2046 – Una scena del film

Sin dall’inizio, l’opera della Duras si presenta nei tempi e nei modi di un’esperienza ipotetica, che potrebbe essersi verificata tanto quanto potrebbe essere stata solo fantasticata. Questa proprietà della storia favorisce subito un’associazione immediata con la trama di 2046, così ampiamente soffocata da un tempo che potrebbe essere stato reale, fantasticato, vicino o lontano. Ciò che conta, per Wong Kar-wai, è l’esperienza soggettiva di quei sentimenti così potenti da generare una realtà nuova.

Questa realtà assume le qualità della sofferenza dello scrittore: è confusa, stagnante, si muove pur senza muoversi, perché l’intima depressione del protagonista lo condanna a un’esistenza in cui il possibile raramente si concretizza.

Sulla base di una depressione analoga e diversa, l’uomo protagonista nel racconto della Duras intavola con una donna un dialogo sessuale fondato esclusivamente su un contratto di prostituzione condiviso, sottoscritto e riconosciuto. In questo clima di pagamento, assenza di spontaneità e desiderio malato, subito s’intuisce che la condizione in cui questo legame nasce è intrinsecamente limitante.

Maurice Blanchot – che sull’amore si è espresso proprio a partire dalla sua analisi della Duras – riconosce la necessità di quel contratto come qualcosa che consente all’uomo di superare un limite ancor più intimo: la sua stessa incapacità di amare. Se c’è contratto, è perché «fin dall’inizio lei ha intuito, senza saperlo chiaramente, che, incapace di amare, lui non può avvicinarsi a lei se non in modo condizionato, in seguito a un accordo».

Il patto, espresso nel linguaggio della prostituzione, diventerebbe il nucleo centrale delle iperfocalizzazioni del protagonista di 2046: la necessità di averlo stipulato, in quel tempo senza tempo, rappresenterebbe anche la trappola che lo incatenerebbe alla sua incapacità di andare avanti, di ricostruire e ricostruirsi senza quell’agonia così impensabile eppure così viva.

2046: il dolore mortifero dell’altrimenti

In un universo parallelo, 2046 è diretto da Marguerite Duras. In che modo la "maladie de la mort" influenza Wong Kar-wai?

2046 – Lo scrittore

All’interno della logica del contratto, la stanza del romanzo della Duras si tradurrebbe in un luogo non fisico, ma emotivo: una memoria come stanza dei sentimenti che l’altrimenti possibile frenato dal limite non è riuscito a penetrare.

Senza la capacità di aprirsi e condividere con l’altro, quell’uomo che nella Maladie de la Mort è un cruciverba di limiti che la donna nuda sdraiata accanto a lui non deve necessariamente risolvere, nell’anaffettivo clima di rimpianto di 2046 diventa il carceriere di se stesso, vittima di un rimorso che sa di vergogna.

Una premessa doverosa informa chi legge che le riflessioni sviluppate sono il frutto di un lutto sublimato in corso di elaborazione, fatto di parole che provano a cristallizzare sensazioni che non vogliono definirsi.

C’è stato un tempo, nella stanza della Duras, nell’universo di 2046 e in questo nuovo lutto, in cui la Maladie de la Mort non aveva posto né ragion d’essere: semplicemente, la vita emotiva era saturata da esperienze belle, leggere, la condivisione intersoggettiva di un legame naturale.

Gli istanti attuali, invece, sono caratterizzati dall’unico diritto di ricordare quell’interno inaccessibile che a un certo punto ha preso il sopravvento, negando il consenso alla percezione e al riconoscimento reciproco.

2046: volontà di amare e volontà di volerlo

Jacques Lacan

Questa differenza irriducibile, tra esterno e interno, io e altro, soggetto e oggetto, è la cifra attraverso cui il paradosso dell’ambiguità non è stato più tollerato e si è espresso, come un sintomo nevrotico, ossessivo e compulsivo, di una patologia fondata sull’inconsapevolezza.

«L’amore è un possesso senza proprietà», afferma con naturalezza Jacques Lacan: che di qualcuno si possa al tempo stesso dire che è mio, e che non è mio, è un diritto paradossale e ambivalente che la volontà del desiderio di amare può permettersi di esprimere senza vergogna.

Volontà che si scontra contro l’impossibile di un limite inconscio e intangibile che ha creato una barriera, la stessa che rende mortifero l’uomo nella stanza della Duras e quello scrittore intrappolato nel suo 2046; necessità di negare i vincoli come fallimento di un legame che di vincoli non aveva bisogno, perché a governarlo ci pensava uno spontaneo cercarsi.

Sembra quasi che le trasgressioni obbligate della Maladie de la Mort, così eccitanti in teoria da diventare noiose in pratica tra quelle due nudità che non riescono a guardarsi e toccarsi con desiderio, diventino le fonti del vuoto psichico che affligge lo scrittore in 2046. Fantascienza, amore, odio e depressione s’intrecciano perché esistono emozioni che costruiscono connessioni continue.

La questione su cui le riflessioni presenti si concludono potrebbe avvalersi tanto di Game of Thrones quanto, ancora una volta, di Blanchot: che l’amore sia la morte del dovere o viceversa, il filosofo francese lo traduce nella sua inconfessabile comunità suggerendo che «l’amore è una pietra d’inciampo per l’etica, a meno che non la mette in discussione con il solo imitarla».

La dualità implica lo scambio, l’isolamento implica il silenzio. Ci può essere indipendenza nella dipendenza: un tempo, una stanza d’albergo, un libro e un ricordo possono dimostrarlo, seppure nel registro del rimorso.

Leggi anche: Io e Annie – Dell’Amore e della Morte

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