Freaks Out ha fatto il suo debutto nelle sale e riscosso il suo successo. Gabriele Mainetti torna a sconvolgere il cinema italiano con le sue ispirazioni fumettistiche e le influenze di una meraviglia hollywoodiana assai più personale e autoctona.
La sincerità della sua opera seconda è innegabile, le influenze che riceve sono molteplici e variegate, tenute insieme da una sapiente passione e ossimorica regia.
Già in Lo chiamavano Jeeg Robot la periferia romana incontrava le vignette old fashioned degli anni ’60, piene di radiazioni e personaggi maledetti da poteri che non avevano mai chiesto.
Freaks Out espande il discorso coinvolgendo la seconda guerra mondiale, gli X-Men e Ritorno al Futuro (senza dimenticare la lezione del western).
Gabriele Mainetti, dunque, figlio dei cinema, sarà padre di una nuova poetica cinematografica? Analizziamo dunque nel dettaglio la prospettiva, unica nel panorama italiano, di questo regista emergente, sulla buona strada per diventare Autore.
Gabriele Mainetti e la lezione di Shyamalan
Mr. Glass: «Questa era una storia delle origini. Lo è sempre stata».
La trilogia di M. Night Shyamalan ci ha portato una riflessione metacinematografica sul media del fumetto, la cui struttura narrativa può fornire prospettive interessanti sui film di Mainetti.
Fondamentalmente le sue sequenze sono anche (e non solo) pagine e vignette che si alternano e proseguono fino al climax. Il gusto piacevolmente retrò di questa struttura narrativa, unito al setting italiano (prima contemporaneo con Jeeg Robot, poi storico con Freaks Out) e altre contaminazioni, trasportano lo spettatore verso nuovi sguardi e frontiere delle possibilità in Italia del medium cinematografico.
I fumetti di un tempo avevano un linguaggio specifico e dei codici a oggi lievemente modificati: per esempio, esiste sempre l’origin story, la storia in cui l’eroe nasce e acquisisce i suoi poteri. Per Mainetti questa è stata (sia letteralmente sia nella sua carriera) Lo chiamavano Jeeg Robot. Lì avevamo tutto ciò che c’era di più vintage, come le scorie radioattive che donano superpoteri, e il contesto della periferia romana.
Proprio quest’ultima, poi, giustifica in maniera intelligente il fatto che il protagonista di Claudio Santamaria usi i suoi poteri per se stesso, in maniera antieroica, un po’ come Peter Parker che usava all’inizio le sue capacità per guadagnare soldi.
Seguono l’evento traumatico e l’ascesa morale, fino alla creazione della maschera: laddove la “carriera” da eroe inizia, il film finisce, trattandosi di una storia delle origini.
Un racconto tradizionale e romantico, un canto malinconico e urbano che guarda ai cartoni animati giapponesi e ai comic americani, come uno Springsteen di Tor Bella Monaca. Gabriele Mainetti scrive la sua origin story guardando all’Italia più sporca tramite una finestra di vignette.
Infatti, sempre al fumetto bisogna guardare parlando di Freaks Out. Poiché dopo l’origin story, nelle pubblicazioni segue lo showdown, la grande battaglia, l’apice dello scontro morale e fisico tra eroi e villain.
In Freaks Out non assistiamo alla nascita dei protagonisti, all’acquisizione dei grandi poteri. Siamo catapultati in medias res nel loro universo di responsabilità fuggite e maledizioni eterne, poiché questo può essere un superpotere a volte. Anche il villain è già in attività e la trama procede inesorabile verso il loro inevitabile scontro.
E quello di Freaks Out è uno showdown a dir poco esplosivo, ma non deve il suo carisma solo ai fumetti.
Gabriele Mainetti e la lezione di Tarantino
«Io rubo da ogni film che sia mai stato fatto».
(Quentin Tarantino)
Sarebbe inutile e fuori luogo dilungarsi sulle citazioni di Tarantino e il significato del post-modernismo in questa sede. Tuttavia, per capire in che direzione stia andando Gabriele Mainetti, possiamo rintracciare nel suo ultimo film le eco del cinema passato.
Prendiamo, ad esempio, i suoi partigiani in Freaks Out. Fumettisticamente potrebbero essere una sorta di S.H.I.E.L.D., misto però anche a quei bastardi senza gloria di tarantiniana memoria. Non hanno poteri, agiscono nell’ombra, sono rudi e sfacciati, ma onorevoli e di buon cuore.
Le citazioni dell’opera seconda di Mainetti, poi, si sprecano: un tocco di Ritorno al Futuro nel villain, una spolverata di Game of Thrones e X-Men per il momento clou di Matilde.
Non sono, tuttavia, i rimandi visivi la parte più interessante nel linguaggio del regista, bensì i rimandi cinematografici. Perché laddove molte sequenze si alternino come pagine e vignette, la tradizione non viene dimenticata: in Freaks Out abbiamo un assalto al treno.
Il genere del western è mitopoiesi americana, ripresa da noi grazie a Sergio Leone, e i fumetti non sono altro che gli eroi mitici di un paese senza storia.
Mainetti rivisita all’italiana tutto ciò, non compiendo qualcosa di nuovo, ma sicuramente di inusuale nel panorama odierno. Una ventata d’aria fresca necessaria che coniuga le dimensioni di un passato desertico e di un presente in calzamaglia, scorgendo un possibile futuro.
Freaks Out è un film ambizioso, quasi un colossal, imperfetto sotto certi aspetti, ma meraviglioso sotto tanti altri. Risplende anche nei suoi difetti, un po’ come i suoi protagonisti. Si delinea, dunque, a piccoli e insieme maestosi passi una poetica mainettiana.
La lezione di Gabriele Mainetti
Se Lo chiamavano Jeeg Robot coniugava un linguaggio misto della nuova Hollywood con qualche strizzata d’occhio al western all’italiana, Freaks Out aumenta il suo dinamismo, cambia ritmo e danza come un trapezista.
La chitarra acustica e malinconica di Jeeg fa spazio al pianoforte in lacrime di Creep e Sweet Child O’Mine. La musica gioca un ruolo fondamentale nelle pellicole di Mainetti, chissà se avremo l’Edgar Wright de noantri.
Il suo cinema vive, per ora, di contaminazioni che si “sporcano” della nostra periferia o della nostra storia. Questa dimensione springsteeniana del girato rende il tutto più autentico, avvolgendoti con più calore. Siamo di fronte alle “solite” storie di disadattati, perseguitati, di persone che non sanno che farsene di grandi poteri.
Non sono, però, le grosse responsabilità il punto, almeno fino a ora, ma la capacità di mostrarsi fragili pur avendo doti eccezionali, fallibili, così da aprirsi veramente all’Altro.
Sono potenzialmente i più forti, ma sono quelli che piangono, i maledetti. Riscoprono in quelle avversità, però, il senso di restare uniti.
Gabriele Mainetti è un italiano che mette in scena i nostri perdenti, intesi come persone che hanno perso qualcosa. Il tutto condito da una retorica filmica mista di tradizione, fumetto e musica, e chissà cosa ci aspetta. Una civil war? O qualcosa di completamente distante e avulso dalle storie a vignette?
Non vediamo l’ora di poter approfondire questa nascente poetica che potrebbe rivelarsi davvero un unicum nel panorama italiano, sia per l’eredità che raccoglie sia per quella che potrebbe rappresentare.
Aspettiamo l’opera terza dell’eclettico Gabriele Mainetti.