Se Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) rappresentano le prime espressioni di quella poetica gramscianamente nazional-popolare che intride il cinema di Pier Paolo Pasolini, Edipo re (1967) e Medea (1969) ne rappresentano i capitoli conclusivi. Apparentemente così lontani dalle tematiche politiche e sociali che notoriamente permeano il cinema pasoliniano, queste due pellicole celano ben più della semplice volontà di mettere in scena i drammi della tragedia greca. La rielaborazione del destino nefando di Edipo e dell’ira furiosa di Medea offre a Pasolini l’occasione di rielaborare il mito, sì da renderlo portatore di un messaggio politico e culturale.
Lontano dal linguaggio retorico e spettacolare, che spesso contraddistingue le trasposizioni cinematografiche di opere arcaiche, Pasolini realizza due film che parlano del popolo e si rivolgono al popolo, mostrando come proprio quel mondo basso e popolare rappresenti l’ultima testimonianza delle nostre radici culturali e mitiche.
«Non vedo differenza tra l’Edipo e Medea; non vedo differenza nemmeno con Accattone. Praticamente un autore fa sempre lo stesso film, per almeno un lungo periodo della sua vita, come uno scrittore scrive sempre lo stesso libro».
(Pier Paolo Pasolini)
Barbarie e civiltà tra Pasolini e il mito
Tanto la produzione cinematografica quanto quella letteraria di Pasolini riflettono il contrasto tra il mondo di borgata e la realtà borghese. Spesso i protagonisti dei suoi film intraprendono un percorso di liberazione da un’ideologia borghese dominante e soffocante, forzando lo sguardo sulla straziante realtà delle classi più basse della società. La sua poetica cinematografica sembra tuttavia suggerire che proprio quegli strati della società più vicini alla terra e alla povertà abbiano accesso a una verità mitica e ancestrale, che riporta alla vera essenza dell’umano, da cui l’uomo moderno borghese si è distaccato.
In Mamma Roma (1962), accostando le scene profane alla musica classica o sacra, il regista evidenzia un legame tra i contadini e i livelli più bassi della classe operaia urbana con la società primitiva e preindustriale. I rituali della terra li riportano come un filo rosso a un orizzonte di senso inaccessibile a coloro che, sopraffatti dalla logica capitalistica, si rinchiudono nella torre d’avorio del progresso e del profitto.
Il contrasto tra barbarie e civiltà, mondo rurale e arcaico, e mondo industriale e moderno è precisamente il leitmotiv che attraversa l’Edipo re.
Pasolini avvolge la tragedia sofoclea con una cornice narrativa. La pellicola viaggia su piani storici differenti, intrecciando le vicende del celebre re di Tebe a quelle autobiografiche del regista. Se la parte centrale tramuta i paesaggi desertici del Marocco nella Grecia primordiale, che si fa teatro delle vicende di Edipo, il prologo e l’epilogo riportano lo spettatore alla realtà lombarda e bolognese di inizio Novecento così cara al regista, con un salto temporale di più di duemila anni. Le palazzine borghesi e le inquadrature di Piazza Maggiore si contrappongono ai paesaggi desolati su cui prende vita la storia di Edipo. La civiltà novecentesca si contrappone alla barbarie primitiva.
La narrazione del triste destino del re di Tebe diviene un espediente per rappresentare la sofferenza del Terzo Mondo. Più che una denuncia della precarietà e dello squallore della condizione dei più sfortunati, l’opera sembra suggerire che proprio quel mondo rurale e incontaminato sia il mondo della verità, quello delle nostre radici storiche e culturali che la contemporaneità prova a recidere.
Allo stesso modo, con Medea il regista ci offre una rappresentazione del contrasto tra la barbarie della Colchide e la civiltà di Corinto.
Ancora una volta, Pasolini si serve del mito per parlare del conflitto tra un mondo arcaico e primitivo e un mondo moderno fondato sulla razionalità. Le riprese contrappongono gli spazi incontaminati della Turchia all’architettura di Piazza dei Miracoli di Pisa e della cittadella di Aleppo in Siria, una contrapposizione che, d’altro canto, riflette la diversità dell’animo dei due protagonisti: Giasone e Medea.
«Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso. Giasone è invece l’eroe di un mondo razionale, laico, moderno. E il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi».
(Pier Paolo Pasolini)
Emblema di queste due forze contrastanti sono poi i due centauri (Sacro e Sacrosanto), assenti originariamente nel dramma euripideo, e introdotti dal regista proprio per sottolineare questi due poli opposti. Il conflitto tra il Sacro e il Sacrosanto rappresenta rispettivamente il conflitto tra il vecchio e il nuovo mondo. Il centauro Sacro, rappresentante di un mondo ancestrale e mistico, si fa testimone di una cultura basata sui fatti piuttosto che sulle parole. Rivisitando il pensiero nietzschiano, potremmo dire che rappresenta un periodo in cui il dionisiaco prende il sopravvento sull’apollineo, e così la furia amorosa di Medea ne è sua emblematica espressione.
Al contrario, il Sacrosanto testimonia quello spirito moderno segnato dal predominio dell’apollineo sul dionisiaco, del pensiero razionale sulla follia orgiastica. Se nell’età infantile segnata dalla creatività Giasone è guidato dal primo, una volta conseguita l’età matura sopprime la parte irrazionale di sé e riesce di fatto a comunicare solo con il Sacrosanto. I due mondi di cui i due centauri sono espressione sembrano pertanto segnati da un’incomunicabilità insormontabile.
Ragione e verità mitica con Pasolini e il mito
Se Giasone dà ascolto al centauro Sacrosanto, è Medea a esprimere quel furore dionisiaco proprio del Sacro. Al di là del bene del male, al di là di ogni giudizio morale, Pasolini con l’incendio finale della reggia e il primo piano sul volto furioso di Medea (Maria Callas) sembra proprio annunciare la vittoria del dionisiaco a scapito dell’apollineo, la vittoria di quel mondo arcaico e mitico sul contemporaneo e sul razionale. Medea infrange le leggi umane e segue quelle divine, restaurando quel rapporto con il mitico che il mondo moderno ha perduto.
Allo stesso modo, l’iter di Edipo lo porta ad abbandonare quell’ideale di razionalità assoluta dominante nella cultura occidentale, per accettare l’ananke (necessità) divina, la cui ragione sfugge all’uomo. Il conseguimento della verità richiede l’abbandono dei pregiudizi logocentrici della nostra cultura per far sì che il mitico si dischiuda. Edipo vuole conoscere la verità, ma andando a fondo nella ricerca della verità scopre ciò che l’avrebbe portato alla propria rovina. Egli vuole trovare il responsabile dell’omicidio di Laio, ma quando lo trova, trova sé stesso.
Il tragico sormonta quindi ogni forma di consapevolezza e di coscienza, avviene a dispetto di tutto ciò che si sapeva. Solo la messa in discussione di ciò che sembra scontato e immutabile consente lo svelamento della verità (aletheia).
Di fronte al tentativo di Tiresia di svelargli il parricidio e l’incesto di cui si è macchiato, Edipo sembra cieco. La sua è una cecità innanzitutto morale, poiché testimonia l’incapacità di accettare il peso della responsabilità delle azioni commesse. Così, quanto più rimanda questa presa di coscienza, tanto più la pestilenza si abbatte sulla città e colpisce vittime innocenti.
Come Edipo, l’uomo contemporaneo è cieco di fronte allo squallore della propria condizione, e tanto più procrastina questa presa di coscienza, quanto più contribuisce alla decadenza generale.
L’operaio è allineato da sé, dal proprio lavoro, dal mondo, ma è incapace di acquisire coscienza di classe. Dall’altro lato, l’esponente della borghesia capitalista non si rende conto di essere direttamente responsabile dell’alienazione imperante.
«Edipo è la persona che non vuole guardare dentro le cose, come tutta la gente innocente, quelli che vivono la loro vita come prede della vita e delle loro stesse emozioni. Questa è la cosa che più mi ha ispirato in Sofocle: il contrasto tra la totale innocenza e l’obbligo di sapere».
(Pier Paolo Pasolini)
Il destino che segna la vita del re di Tebe va contro ogni logica e razionalità. Proprio per questo è necessario abbandonare il pregiudizio logocentrico per prendere coscienza di sé come responsabile di un male che ha colpito l’intera città. Una volta dischiusa la verità e presa consapevolezza di quanto avvenuto, Edipo si accieca. Ciò che Pasolini suggerisce è che tale gesto, più che testimoniare la sua incapacità ad accettare le proprie azioni, testimoni invece il suo farsi carico della verità, tanto da diventarne poeta come Tiresia.
Così Edipo lascia la sua terra natia, fino a raggiungere la Bologna novecentesca. Proprio nella città in cui il regista aveva dato inizio alla sua produzione letteraria, Edipo diviene poeta e con il flauto esprime una verità che non può essere espressa da un linguaggio razionale, ma solo da una musica mistica e sacrale.
«Alla fine, il bambino è vecchio e cieco ed è un po’ ciò che Tiresia a suo tempo è stato, ossia una sorta di profeta, di “homo sapiens”, di saggio che suona il suo flauto e percorre il mondo contemporaneo».
(Pier Paolo Pasolini)
Solo il mito può farsi carico di una verità tragica, non razionale, ed è per questo che Pasolini decide di lasciare esprimere a due tragedie greche una verità che nella contemporaneità sembra essere andata perduta. Come Edipo, l’uomo contemporaneo è cieco di fronte a una crisi di valori in cui ha perduto le sue radici, la sua vera essenza. Con Edipo re e Medea, Pasolini esprime dunque questo desiderio di risvegliare la coscienza della modernità.
Il suono del flauto esprime un messaggio di denuncia che attraversa le piazze della città per poi rivolgersi alla realtà industriale delle fabbriche. La vittoria della ragione sull’irrazionalità impedisce, tuttavia, che i suoi contemporanei comprendano la verità mitica che il regista intende svelare. Così, il pellegrinare di Edipo si conclude nei luoghi della sua infanzia, con la consapevolezza di non essere riuscito a diffondere il suo messaggio.