Ci fu un tempo in cui l’eterno Ingmar Bergman decise di portare in scena un caso esemplare di ciò di cui dibattiamo quando parliamo di metacinema: un’attrice che interpreta il ruolo di un’attrice. Era il 1966, l’attrice era Liv Ullmann, e il film, non a caso, si intitolava Persona, proprio in riferimento alla dramatis persona teatrale, ma anche alla persona in quanto maschera, quella che chiunque inevitabilmente indossa per ricoprire un ruolo nella propria sfera sociale.
Il capolavoro bergmaniano raccontava di Elisabeth, un’attrice che in preda a una crisi di identità smetteva coscientemente di enunciare, di costruirsi come persona, appunto, e che come cura per questa condizione andava a vivere qualche settimana in isolamento con l’infermiera Alma, una ragazza che inizialmente sembra essere altro rispetto a Elisabeth, ma che nell’anima – Alma, non a caso – non è altro che lei.
L’attrice, quindi, come specchio del mondo, è interprete di un copione e al contempo controparte inscindibile della persona, nonché personaggio, che vive dietro le quinte. Così, da quel momento in poi, i protagonisti che recitano popoleranno sempre più le pellicole di tutto il mondo.
Due particolari tipi di Elisabeth hanno segnato la nostra epoca cinematografica: l’innominato protagonista di Holy Motors (2012) di Leos Carax, e Riggan Thomson, la star di Birdman (2014), di Alejandro González Iñárritu.
Quella di Holy Motors non è una vera e propria trama, non è una vicenda, è un particolare esempio di storia che dietro di sé non cela nulla. Il Protagonista è un uomo che di mestiere fa l’attore, sempre, senza sosta. Spostandosi da una parte all’altra di Parigi, l’attore interpreta una serie di ruoli, incorpora qualsiasi personalità, travestendosi, cambiando il linguaggio del corpo, il trucco, lo sguardo. Ma quell’uomo è un simulacro, nel senso in cui lo intendeva Jean Baudrillard: non una finzione che nasconde la verità, bensì una verità che nasconde il niente.
Perché dietro la vita del Protagonista non troviamo nient’altro che la recitazione, ma non solo in quanto finzione e messinscena, piuttosto è la recitazione come unica verità possibile. E con il puzzle composto dai suoi ruoli, l’attore svela lo sgretolamento dell’identità postmoderna: un’unione di pezzi presi da qualcos’altro, il susseguirsi di rapporti che ci fanno cambiare maschera, gli amori brevi e inutilmente melodrammatici, le famiglie composte da sconosciuti, la tecnologia che ci opprime e ci supera, il tempo che sembra sempre, inevitabilmente, troppo poco. Così il Protagonista mostra una lettura variegata e impietosa del mondo, senza però avere un mondo tutto suo, che resta a noi, e a lui, sconosciuto.
Se in Holy Motors si vuole vivere pienamente il contesto circostante attraverso la dramatis persona, allora non c’è spazio per la persona come individuo, persa costantemente nel mondo delle maschere.
In Birdman, l’universo dell’attore si ribalta, pur conservando alcune delle sue caratteristiche costitutive. Riggan Thomson è un attore incastrato da anni nel ruolo di Birdman, il supereroe di un cinecomic ad alto budget che lo ha reso celeberrimo in tutto il mondo. Per riscattarsi e dimenticare quella parte che lo perseguita attraverso una strana forma di schizofrenia, Riggan mette in scena Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, adattamento teatrale dell’antologia di racconti di Raymond Carver.
Riggan, al contrario del protagonista di Holy Motors, ha un’idea ben precisa del proprio mondo, ovvero della sua vita e dell’universo dello spettacolo. Thomson capisce che se la sua pièce riscuoterà il successo che spera, forse l’immagine del supereroe-uccello gli verrà scucita di dosso, e la critica inizierà davvero a ritenerlo un artista completo. In più, nonostante il rapporto tribolato con la ex moglie, con la figlia e con la nuova compagna, Riggan ha idea di quali rapporti stia sacrificando per arrivare al proprio obiettivo, e capisce quali enormi difficoltà possano generare le scelte di vita sbagliate.
Ciò che l’attore di Birdman non conosce affatto, al contrario di quello di Holy Motors, è ciò che c’è nel mondo esterno.
Sam: «Stai facendo una commedia basata su un libro scritto sessant’anni fa per un migliaio di vecchi rincoglioniti bianchi la cui preoccupazione è dove andarsi a prendere un dolce e un caffè a fine serata. L’unico interessato a questa merda sei tu! E adesso, ammettilo, papà: qui non c’entra assolutamente niente l’arte, tu stai facendo questo perché vuoi sentirti di nuovo importante. Beh, lo sai che c’è? Là fuori c’è un mondo di persone che lottano per sentirsi importanti ogni giorno, ma per te tutto questo non esiste!».
Così Sam, la figlia del protagonista interpretata da una strepitosa Emma Stone, descrive il rapporto tra il padre e la realtà fuori dal palco. Semplicemente, Riggan non pensa ad altro se non al suo mondo, non ha bisogno di cambiare continuamente maschera, perché ne indossa costantemente una ottusa, chiusa e martoriata dalle proprie paranoie.
Se in Birdman si vuole vivere pienamente il contesto in cui Riggan è calato con la sua dramatis persona, allora non c’è spazio per il mondo circostante, dimenticato in favore della propria impenetrabile sfera.
A fare dialetticamente da sintesi tra le due persone postmoderne che abbiamo descritto, c’è proprio colei da cui siamo partiti: Elisabeth. Nel suo silenzio, nei suoi lunghi confronti con Alma, la dramatis persona bergmaniana riascolta e decifra il suo mondo, le sue esperienze, il suo rapporto con chi la circonda. Ma al contempo, le due protagoniste di Persona descrivono la dualità in cui l’essere umano è immerso, sempre preso in mezzo tra il proprio Io più intimo e la maschera che lo riveste, tra chi siamo, come ci mostriamo e come ci autorappresentiamo.
Persona è in qualche modo l’antesignano, lo svolgimento e la sintesi tra Holy Motors e Birdman, un po’ attore smarrito e senza identità, addirittura senza parola, e un po’ artista bloccato e incastrato nelle proprie vicissitudini, tanto da aver bisogno di un alter ego per leggere la propria vita.
Elisabeth, Riggan e l’Attore innominato sono l’esempio di come la maschera sia il dispositivo più sicuro, più dannoso e più tristemente comune nella mediazione tra la persona, la propria vita distrutta e il mondo circostante.