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Oscar 2018: Guida ai Candidati per Miglior Film

Andrea Vailati

Marzo 4, 2018

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Quest’anno l’aria è imbevuta di una strana sensazione di cambiamento.

E’ un cinema diverso quello che domina le candidature della 90esima edizione degli Oscar. Un’annata che vede soccombere le grandi drammatizzazioni che tanto hanno affascinato il cinema hollywoodiano degli ultimi 30 anni, a favore di fiabe dalla delicata poesia grottesca, analisi sociologiche che svelano l’irrisolutezza umana e osservazioni dei fili che la psiche controlla e nasconde, per poi liberare in tutta la loro fragile follia.

Eccoci qui quindi con un breve sguardo a tutti i candidati a Miglior film di quest’anno, con brevi analisi per poter al meglio contestualizzarsi nella grande notte.

Get Out – Scappa (Analisi di Davide Leccese)

[Leggi anche: Get Out – Mostri quotidiani]

Le quattro candidature a Get Out – Scappa di Jordan Peele sono state sicuramente tra le sorprese più grandi delle nomination agli Academy Awards 2018. Pur non essendo realisticamente il più bel film dell’anno, non si può dire che l’opera prima di Peele sia un film senza niente da dire

Get Out è un film capace di prendere una tematica tanto amata nella stagione dei premi, quanto abusata come il razzismo, declinandola in una forma assolutamente originale, attraverso un thriller psicologico con sfumature horror, categoria di film di cui raramente si parla in questo periodo dell’anno.

Il film inoltre non prende di mira il razzismo da croci infuocate e campi di cotone, come sarebbe molto più facile, ma fa una satira molto più sottile sul razzismo liberale, quasi progressista, quello che “avrebbe votato Obama per un terzo mandato” e che fa di tutto per sembrare al passo con i tempi. 

Peele decide di osare, di uscire dagli schemi, pur strizzando l’occhio a film come “La fabbrica delle mogli” e al mondo dei b-movie, e su qualche punto, in particolare nel finale, scivola. Il risultato è però comunque un thriller capace di creare un forte senso di angoscia e tensione e di non essere banale pur facendo vedere abbastanza presto dove andrà a parare. Non vincerà (almeno non dovrebbe) e pare che alcuni membri più anziani dell’Academy lo stiano addirittura sabotando, ma la candidatura è già stata un successo.

 

 

Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri (Analisi di Enrico Sciacovelli)

[Leggi anche : Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri – L’intreccio tra vendetta e speranza]

tre manifesti

Per quanto ci piace abbellire la nostra definizione di cinema, le fondamenta dei film sono le storie che raccontano, e Tre Manifesti a Ebbing, Missouri rappresenta un esempio da seguire nell’uso della voce di una storia sul grande schermo.

La voce che ci narra questa storia, quella di Martin McDonagh, la mente dietro a una regia e sceneggiatura solide come il marmo, è una voce ben distinta:
è arrabbiata, tuonante, assordante, scuote l’ascoltatore ma è anche disturbante, esasperata e vicina a rompere il suo urlo di furia in un singhiozzo.

Questa è una storia sulla rabbia, su quanto ci serve, sul bene e il male che fa a chi la prova e chi ne subisce, sia questa giustificata o no.
In quanto tale, il film si permette di scuotere lo spettatore per poi lasciarlo con il culo per terra, con quella stessa ira ancora dentro di sè, impotente davanti all’imprevedibilità degli eventi che si susseguono.

Si tratta di una storia molto importante per questo momento, universale nel suo tema, ma specifica e determinata nella sua realizzazione, grazie a una sceneggiatura eccezionale, un cast di personaggi credibile, eccentrico e recitato magistralmente e un senso di frustrazione palpabile che permea il film, e poi lo spettatore. E non lo lascia andare, rimane dentro lo stomaco e la mente, a brontolare, infastidire e stupire.

Per questo e altri motivi, il 4 marzo, gli occhi del mondo del cinema saranno puntati su Martin McDonagh e sul suo ultimo lavoro.

Il Filo Nascosto (Analisi di Andrea Vailati)

[Leggi anche: Il Filo Nascosto – Calmo, crudele controllo]

Un’intera esistenza può essere monitorata da un controllo necessario, così rarefatto da risultare presupposto.

Routine di distacco dall’empatia, maniacale e compulsiva necessità di ripetere un ordine mentale, fatto di colazioni silenziose e muse destinate ad essere emblema di un periodo, non di più. Per poi appassire dimenticate, come un arredamento non più necessario.

E’ di questo colore ombrato e sbiadito che si riveste, nell’incipit de Il Filo Nascosto, un meraviglioso Daniel Day-Lewis alias Reynolds Woodcock.

Ma c’è un qualcosa che può sfuggirci, risvegliando una fragilità dimenticata in un’età lontana, senza aver avuto il tempo di comprenderla, essendo unicamente capaci di soccomberne.

Così, in una lotta di eccelsa follia e sguardi consapevoli subentra Alma, interpretata da una potentissima Vicky Krieps,  in principio una delle tante destinate a svanire, una ingenua dolce ragazza, infine una donna capace di affondare in un patologico male necessario perché un amore così complesso da risultare inaspettato possa sbocciare.

Un film paradossale, fatto di apatie avvolgenti ed emozioni inquietanti. Una regia esagerata, nel senso più innovativo di un racconto che nulla può essere se non d’amore e di malattia.

Un oscar troppo difficile da vincere, ma forse desiderato dai più affascinati dalla poetica psicolabile e dolce di Paul Thomas Anderson.

Dunkirk (Analisi di Tommaso Paris)

[Leggi anche: Dunkirk – L’ unicità di Nolan ci stupisce sempre]

La storia la conosciamo tutti, l’abbiamo studiata sui libri di scuola, forse.

Nel 1940 sulla spiaggia francese di Dunkirk, 400.000 soldati inglesi sono intrappolati e accerchiati dall’esercito tedesco. Attaccati dai tre fronti, terra, cielo e mare. Gli inglesi, dunque, organizzano un’improbabile operazione di evacuazione e salvataggio, coinvolgendo anche imbarcazioni civili.

Dunkirk è un evento storico interpretato attraverso tre punti di vista, appunto terra, aria e mare. Questi tre momenti saranno caratterizzati da diverse linee temporali permettendo l’apparire del sempre presente e caro tema nolaniano, il tempo. Questo, che si può considerare un vero e proprio personaggio, unifica le diverse linee temporali permettendo allo spettatore, insieme al magistrale connubio di fotografia e musica, di esperire la guerra. Nel film non c’è un secondo in cui lo spettatore possa riprendere fiato o sentirsi al sicuro. Siamo in Guerra.

Nolan permette così di prendere parte a questo evento storico, una vera guerra, quella degli uomini, delle persone qualunque, dei ventenni che non hanno la minima idea del perché si trovino lì.

La Guerra che sarà il vero e proprio protagonista della vicenda (significativa è scelta di Nolan di non caratterizzare alcun personaggio), non c’è alcun protagonista che sia un soldato e un pilota. Il personaggio principale è appunto la guerra, e lo spettatore è immerso in questo mondo.

La grandezza di Nolan sta appunto in questo, nell’andare oltre. Un cinema, che va oltre il cinema. Una pura e terrificante esperienza.

Per il rapporto tra Nolan e gli Oscar, non possiamo sapere che fine farà questo gioiello del 2017.

 

Chiamami con il tuo nome (Analisi di Andrea Vailati)

[Leggi anche: Chiamami con il tuo nome – Dove è finita quella pura, libera emotività?]

Chiamami con il tuo nome è una risposta all’incalzante fretta odierna, cinica e necessitante di complessità per risolversi.

Un odierno che ha forse dimenticato la necessità dello smarrirsi, della più primordiale condizione di incerta ed ingenua curiosità. Un odierno che si è costituito in rinunce che neppure riconosce.

Chiamami con il tuo nome risponde dislocandosi da uno spazio tempo che non fa altro che rincorrersi, per giungere nella malinconia delle estati fatte di noia e scoperta. Per perdersi in un’estetica passata, di cittadine in pietra bianca e bagni al lago.

Qui, con un’essenzialità che forse da tempo il cinema non proponeva, ci viene raccontata una storia che va ben più affondo di quel che un primo sguardo direbbe.

Una storia di formazione emotiva, di un diciassettenne che ancora può subire ed amare la purezza di un’emozione incontrollabile.

Una storia d’amore omosessuale che non si limita per nulla a tale connotazione, una storia di primordiale necessità dell’altro che sa però accedere alle più delicate forme dello spirito.

Un inno alla sofferenza necessaria per sorridere, senza vagare nel trattenuto o nel compromesso di se stessi.

Un oscar che confermerebbe la necessità di emozioni nel mondo di oggi.

Lady Bird (Analisi di Elena Matassa)

[Leggi anche: Lady Bird – Imparare che amare significa prestare attenzione  ]

Lady Bird si presenta come un film semplice, una storia sull’adolescenza.

Lo sguardo della regista, l’ormai acclamata creativa indie Greta Gerwig, segue la protagonista lungo la parabola del suo ultimo anno alla scuola cattolica di Sacramento. Il mondo da lei ritratto si configura però come una realtà opprimente dalla quale Christine, nonché Lady Bird, non vede l’ora di fuggire per incontrare una realtà più grande fatta di cultura e indipendenza.

Effettivamente si tratta di una storia già vista, che segue gli elementi canonici di questo tipo di “romanzo di formazione” – anche se forse di film di questo genere al femminile non ce nei sono poi così tanti. I toni del racconto hanno in questo caso una loro originalità: tra il romanzato, l’impacciato, l’ironico e il brillante i dialoghi sono piacevoli e intelligenti.

La ricerca di un altro da sé, di un sé migliore e idealizzato, che è un bisogno tipico di un momento particolare della crescita, è un atto di naturale e sana ribellione; ma ciò non significa che ogni cosa, superato il momento, sia riconducibile alla normalità e ad una lezione univoca da imparare. La bellezza di questo film risiede nel suo stile malinconico e leggero allo stesso tempo; è forse un film minore rispetto ad altri candidai all’Oscar quest’anno, ma resta un piccolo gioiello che risplende per onestà e bravura degli interpreti. 

La Forma dell’Acqua (Analisi di Andrea Vailati)

[Leggi anche: The Shape of Water – Dolci, magnifici mostri]

La maturità, forse, comprende il bisogno del semplice. In una forma assai più delicata e sottile, il pennello grottesco di Del Toro ci racconta una essenziale fiaba d’amore. Essenziale, per la sua primordiale riscoperta di quei canoni di scrittura per nulla sfumati, ma bianchi o neri.

Tutto è così accessibile sin dal principio, l’eroe sarà l’eroe ed il cattivo è talmente ovviamente cattivo da risultare quasi buffo. In questa essenzialità ritroviamo tanti temi perduti nel loro risultare a tratti troppo semplificati, eppure radici di un certo tipo di idea di mondo.

Essenziale però anche perché riscopre una bellezza nostalgica e fiabesca di un mondo oramai lontano, sognante e semplicemente bisognoso d’amore.

La forma dell’Acqua vuole riscoprire la purezza più eterea, perdendosi in un’opera che non si struttura davvero, a suo rischio e pericolo. Manca, per l’appunto, di una forma definita, di una costruzione narrativa complessa e compiuta. Ma forse, la maturità comprende il bisogno del semplice: il bisogno di raccontare una bella storia, con una semplice morale, ed una splendida estetica.

Per questo, ogni tanto, può riempirci con molta più essenzialità.

L’ora più buia (Analisi di Andrea Vailati)

[Leggi anche: L’Ora più buia – Churchill e la Forza dell’Oratoria]

Non è di un azione eroica sul campo di battaglia che parliamo.

Non è “semplicemente” della spietatezza della guerra che parliamo.

Con L’ora più buia ci troviamo a fare i conti con l’emblema di un gigante tra gli uomini, nel bene o nel male. 

L’intero film è un meraviglioso piatto d’argento, necessario per servire la pietanza principale con tutte le attenzioni possibili rivolte ad essa, o meglio egli: Wiston Churchill.

Questo film, nella conflittuale descrizione di uomo anticonformista eppure rivestito, nell’ora più buia, dell’istituzione più importante, ci mostra la grande forza e arma di un uomo entrato nella mitologia contemporanea: l’oratoria.

Non c’erano statistiche, dati o avvenimenti che dessero senso alle scelte di Churchill, solo la speranza ed il bisogno di credere nella dignità di un paese, e solo le parole potevano trasporre ed infilarsi in ogni dove con tale imperativo umano: lottare ad ogni costo.

Un biopic con tracce non convenzionali ma che sempre biopic rimane, totalmente anacronistico rispetto all’annata di questi oscar. Eppure appartenente proprio a quel genere che Hollywood ha sempre amato.

The Post (Analisi di Andrea Vailati)

E’ proprio su questa scia di novità e distacco dalle grandi drammatizzazioni che un grande residuo della vecchia guardia lotta a spada tratta.

Tra il documentaristico e i grandi momenti di pathos, di quelli che il cinema americano sa pennellare fin troppo bene ma, forse, in maniera fin troppo ovvia per degli occhi che di questo stile narrativo ne hanno visti tanti, ecco giungere The Post.

Grandi figure dominanti, “emblemizzati” in maniera magistrale dall’eterna Streep e da un interessante Tom Hanks, mostrano grandi spigoli dell’informazione pubblica, ove questa va compresa, prima di essere lasciata libera di distruggere.

Grigio, ambivalente nel voler essere romanzato eppure deciso e tagliente, per una vicenda che sa portare tensione nelle menti osservanti: perché vediamo uomini che devono prendere decisioni che impatteranno il mondo.

Forse non il suo anno, forse più debole di alcuni suoi precedenti (ex Caso Spotlight), ma un film che mantiene vivo un cinema che, forse molto presto, cederà la torcia del successo a questi nuovi eredi che il 2018 ha definitivamente consacrato.

Il nostro Pronostico:

Il più probabile: Shape of Water
Il più interessante: Tre manifesti ad Ebbing
La sorpresa: Chiamami con il tuo nome

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