La trilogia della morte – La visione della vita secondo Iñárritu

Maura D'Amato

Febbraio 10, 2021

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Regista dalle molteplici sfaccettature, Alejandro González Iñárritu, è riuscito a dimostrare di saper non solo realizzare opere dall’incredibile valore artistico, ma anche di saper fornire con forte sensibilità un vero ritratto della realtà e in particolare delle emozioni umane. La sua carriera inizia con la cosiddetta — da lui stesso —   trilogia della morte, frutto di una stupenda collaborazione con lo scrittore Guillermo Arriaga. Le tre pellicole costituiscono un trittico, che in realtà vera e propria trilogia non è. Sono tre film dove l’unica cosa che li accomuna è la rappresentazione tramite flashback e flashforward di un unico tema principale, che ovviamente è la morte.

Quelle che Iñárritu porta in scena sono sempre tematiche molto serie e interessanti, dal carattere profondo e malinconico. Lo spettatore si trova coinvolto in una scia di drammaticità, che sfocia nella meditazione e nella riflessione. In ognuno dei suoi film vengono affrontate tematiche di grande spessore: malattia e morte, perdita, ricchezza e povertà, depressione, solitudine.

Della trilogia fanno parte Amores perros (2000), 21 grammi (2003) e Babel (2006). La tecnica narrativa non è per nulla ordinaria, giocando con la sfasatura dei piani temporali. Vengono rappresentate storie interconnesse tra loro, che alla fine forniscono allo spettatore la giusta chiave di lettura affinché tutti i tasselli possano tornare al loro posto nel puzzle.

Amores perros —  il deterioramento delle emozioni umane

Tre storie si incrociano sullo sfondo di una convulsa Città del Messico. Il giovane Octavio, innamorato di Susana, la moglie adolescente del fratello criminale violento, progetta di fuggire con lei e prova a racimolare i soldi necessari introducendo il suo cane in un giro di combattimenti clandestini. Daniel, il direttore altoborghese di una rivista, lascia moglie e figlie per andare a vivere con il suo nuovo amore, Valeria, una bellissima modella sulla cresta dell’onda. El Chivo, ha lasciato la famiglia per diventare un terrorista di estrema sinistra. Dopo anni di carcere e alcol, vive da barbone con un branco di cani randagi e, di tanto in tanto, uccide su commissione.

Un incidente di auto, ripreso da diversi punti di vista, è il punto di incontro. Basta uno scherzo del destino per far sì che le vite così diverse e distanti dei tre protagonisti si incrocino, cambiando per sempre il loro corso. Si assiste alla degradazione delle emozioni e dei sentimenti umani. I cani, che sono forse i protagonisti di queste vicende, assumono un ruolo fondamentale in traslitterazione con i personaggi. Gli uomini infatti, assumono un “atteggiamento da cani”, toccando quello che si può definire il fondo della crudeltà e dell’umanità.

Fin dove è disposto ad arrivare l’essere umano per raggiungere una soddisfazione personale? Cosa è disposto a sacrificare? E soprattutto, se il prezzo è far soffrire un altro essere umano, si va avanti ugualmente? Domande che ci vengono poste sotto il naso dal regista, sulle quali ognuno di noi dovrebbe interrogarsi.

Il primo film che apre la Trilogia della morte, si conclude con un finale aperto. Una perfetta conclusione per una rappresentazione della sofferenza insopportabile eppure necessaria delle relazioni umane. Questa è la vera anima del film, il senso ultimo che va oltre le singole storie e che ci consegna oltre due ore di cinema crudo, violento e doloroso.

21 grammi —  il valore di una vita umana

Il secondo film della Trilogia della morte, si apre proprio con essa. Un uomo, che si trova nella cosiddetta sala di attesa per la morte. Subito dopo, si vede invece la vita in un flashback. 21 grammi, primo film con produzione americana di Iñárritu e ambientato nel New Mexico, racconta le sventure di un professore di matematica (Sean Penn) reduce da un trapianto di cuore, la cui moglie vorrebbe un figlio attraverso l’inseminazione artificiale. Un ex detenuto (Benicio Del Toro) che vorrebbe ricostruirsi una vita, ma che uccide accidentalmente tre persone con il suo pick-up. Una vedova (Naomi Watts) che seppellisce il suo dolore nella droga.

Di nuovo un incidente, che è il punto di incontro nelle vite di queste tre persone. Ma si può davvero parlare di vita? Il film ci mette subito di fronte al dolore ed alla riflessione sul valore di una vita. Si può dire di continuare a vivere dopo alcuni avvenimenti? O si parla soltanto di sopravvivenza? Il titolo sta and indicare il peso dell’anima, i famosi supposti 21 grammi. Ma quanto vale una vita umana? Vale davvero 21 grammi?

Il film è continuo rincorrersi tra la vita e la morte che si danno il cambio, fornendo allo spettatore due ore di riflessioni. I temi affrontati sono molteplici, forse troppi. Ma la bravura del regista sta nel proporre tantissime idee, in soli centoventi minuti, delle quali nessuna oscura un’altra. Lo spettatore si trova a riflettere su ogni argomento proposto, facendosi delle domande alle quali non si trovano risposte. L’anima è il centro dell’intera discussione, il fine non è certo quello di trovare risposte, quanto di osservare la vita, sperando di rintracciare, nel vortice della perdita, almeno una traccia di se stessi.

Babel — un mosaico di vite disperse

Ultimo film che chiude la Trilogia della morte, dove un’arma rappresenta il punto di congiunzione di diverse vite. Il colpo di fucile sparato da due ragazzi marocchini colpisce mortalmente una turista americana (Cate Blanchett), in viaggio con il marito (Brad Pitt) per sanare il loro rapporto di coppia. I due figli della coppia sono accuditi da una tata messicana, che varca con loro, accompagnati dall’imprudente nipote, il confine tra USA e Messico, per non perdersi il matrimonio del figlio. Nel frattempo, in Giappone, la polizia cerca il padre di un’adolescente sordomuta alle prese con una vita travagliata per il suicidio della madre e gli ostracismi affettivi della società nei confronti dei disabili.

Babel rappresenta la tragedia del mondo secondo la partitura del dolore. Ricongiunzione di storie disperse nello spazio, ma intimamente collegate nel tempo. Storie che s’incastrano in un babelico mosaico, dove le vite cicatrizzate dei personaggi, portano la “ferita” dello stesso proiettile.

In questo film, come nei precedenti, i temi affrontati sono molteplici. Il sentimento che prevale però, stavolta è l’indifferenza del genere umano di fronte a una condizione disastrosa. L’indifferenza che attraversa i turisti compagni di viaggio della coppia Pitt/Blanchett. L’indifferenza dei compagni della ragazza giapponese, di fronte ad una evidente richiesta di aiuto.

Iñárritu ci offre ancora una volta, infiniti spunti di riflessione, che vanno a concludere una trilogia, legata da un unico tema filo conduttore: la morte. Sebbene infatti i tre film non siano collegati tra di loro, ciò che li accomuna è proprio il senso di smarrimento e impotenza dell’uomo di fronte alla vita. Le sequenze portate sullo schermo sono stravolte, così come le vite di tutti i personaggi.  L’unità temporale è continuamente spezzata, come le vite dei protagonisti e la sceneggiatura è complessa quanto le loro anime.

Inoltre, ogni film sembra portare in scena un sentimento o una condizione esistenziale che è quasi una conseguenza del sentimento visto nel film precedente. Infatti, si parte dalla rabbia e dalla fretta di arrivare (Amores perros), passando per l’inevitabile disastro della vita (21 grammi) e arrivando infine agli strascichi di chi cerca di ripartire (Babel).

Tre film, infiniti sentimenti, un unico regista. Ecco a voi: Alejandro González Iñárritu.

Leggi anche: Iñárritu – Il senso del finale di 21 grammi

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