Paradise non è uno stato mentale, non è un’aspirazione. Paradise è solo un residence, appollaiato in cima alle montagne del Friuli Venezia Giulia, a cavallo tra l’Italia e la Slovenia; una baita che galleggia nella nebbia e circondata dalla neve, in cui Calogero si rifugia dal freddo, ma non dalla solitudine. Unica consolazione, in quella landa desolata, sono pochi scampoli di sicilianità che lui ha portato con sé: un puzzle dell’isola, uno scacciapensieri e il suo carretto delle granite. Ma chi può mai comprare granite in mezzo a una bufera di neve?
Calogero sembra una persona triste, sola, abbandonata. In realtà è solo un ragazzo che ha dovuto fare una scelta importante, nonostante la giovane età. Calogero è un testimone di giustizia; un ragazzo che ha assistito a un omicidio e ha scelto di testimoniare, contro la Mafia. Per evitare di essere ammazzato, però, ha dovuto abbandonare sua moglie e la creatura che portava in grembo, scappando sulle montagne. In cerca di anonimato, tra le pareti di legno freddo del Paradise.
Non gli sembra possibile di poter vivere così. Di sopravvivere senza l’amore dei suoi cari, prova a mantenere un contatto con la sua terra come può, ma è tutto inutile. Forse dovrebbe distrarsi, conoscere gente nuova, ma quel posto sembra così freddo, così inospitale. Anche i suoi vicini hanno abitudini strane; bevono liquori che bruciano le budella e ballano prendendosi a schiaffi a ritmo di musica.
In che posto è mai capitato? Quello non è un Paradise, sembra più un manicomio.
Questo equilibrio, seppur solitario, viene spezzato quando Calogero scopre che il killer della Mafia che ha denunciato ha preso una camera nello stesso residence, giusto due porte più in là. Cosa ci fa lì? Lo hanno trovato? Come difendersi? Non riesce a trovare risposte a tutte le domande che gli affollano il cervello e non gli resta molta scelta sul da farsi. In primis, si mimetizza; si tinge i capelli e inizia a frequentare i corsi di Schuhplattler. E poi, fa quadrato, come a battaglia navale; prova a familiarizzare con gli indigeni, quelle persone dall’accento strano e le abitudini incomprensibili.
Ma il Paradise è troppo piccolo per contenerli entrambi, lui non può scappare per non uscire dal programma di protezione testimoni e allora non gli resta che uccidere l’uccisore. E poi? Poi diventerebbe identico al suo nemico, a quelle persone contro cui ha combattuto e sta combattendo quella battaglia di solitudine sulla montagna. In realtà, la vicenda di quei due uomini soli, sul cocuzzolo della montagna, è un intreccio continuo; un percorso che si incrocia e si accavalla nel male, ma anche nel bene.
Si chiamano entrambi Calogero, adesso. Sono entrambi testimoni di giustizia, mandati al Paradise per salvarsi da morte certa.
Entrambi, tra la neve fredda e la montagna inospitale, cercano una nuova tranquillità; una nuova dimensione che possa includere gli orizzonti che si sono aperti lontano dalla Sicilia. E forse, tutti e due avevano solo bisogno di un amico, un compagno, con cui condividere la visione di un mondo diverso; l’idea di un mondo giusto e umano, nel deserto sentimentale che li circondava.
Paradise è un film drammatico, ma non solo; è un film comico, ma non solo; o forse è un film psicologico, ma non solo. È difficile dare una connotazione specifica, unica, a un film così sfaccettato e stratificato. Forse pecca di ingenuità, forse di perbenismo, ma non si può dire che non sia autentico. Le inquadrature si soffermano spesso sui visi dei personaggi; con particolare insistenza su Alfio/Calogero, il protagonista, impersonato da Vincenzo Nemolato. Ai suoi sguardi sempre dubbiosi, teneri e ai suoi ricci scapigliati.
Il susseguirsi di primi piani e mezzi primi piani aiuta a soffermarsi molto sul lato umano della pellicola. Alfio/Calogero non ha nulla dell’eroe solitamente inteso. Fisicamente è mingherlino, tarchiato, con un sorriso disarmante quasi bambinesco; di fronte allo specchio, mentre copia le movenze di Travis Bickle dall’accento siciliano, risulta parodistico. Tutt’altro che minaccioso. Ma forse, proprio la fragilità che viene fuori dal personaggio è la sua vera forza. Il suo aspetto comune, semplice, simile a ognuno di noi, fa capire che l’eroismo è solo un passo più in là.
È tutto un gioco di sguardi, di occhi che spuntano da sotto ai cappellini di lana, in mezzo al piumino dei giubbotti. Di facce che bucano lo schermo, per rimarcare un’attinenza con la realtà che rende la comicità di alcune scene profondamente pirandelliana.
Si ride, si sorride, già dall’inizio, vedendo Alfio/Calogero solo col suo carrettino di granite. Ma proprio lo sguardo in macchina ci ricorda che è tutto vero, che quella storia riguarda anche noi. Ci dice che l’eroismo è fatto di idiosincrasie e piccoli gesti, che tutti possiamo fare un piccolo passo verso il futuro.
Nel film, poi, si respira una simbologia sotterranea, attraverso un uso mirabolante degli oggetti. A partire dalla differenza cromatica marcatissima tra interni e esterni. Gli esterni fatti di grigi, bianchi e sfumature di blu, a manifestare una realtà ostile, calcarea; in contrasto con l’interno fatto di sfumature calde, di legni rossicci e lampade gialle. La contrapposizione sembra volerci suggerire che il calore dei colori, delle luci, trasuda dai corpi delle persone che abitano i luoghi; che non c’è conforto nella natura, che ci considera come pulci sulla sua pelle, ma solo nella sympatheia umana.
Proprio quelle luci sono sempre artificiali, lampade senza nessun sole. I lampioni per strada sono come segnali nella notte, manifesti di una presenza che non riesce a penetrare nel buio della solitudine. A questi si alternano le luci dei neon; a differenza del tungsteno, il neon non sviluppa calore, è una luce senz’anima.
L’insegna del Paradise, le palme dell’albergo in Slovenia, sono fantasmi di normalità; rappresentano, forse, solo l’illusione di una vita normale. La voglia frustrata di Alfio/Calogero di ricominciare, nonostante tutto e nonostante tutti.
Oggetti non solo immaginifici, ma soprattutto materiali. Il protagonista è circondato da simboli della sua terra. Il puzzle appeso al muro, lo scacciapensieri sul comodino, le granite che venderebbe ovunque, l’arancina a cui non riesce a rinunciare, neanche al culmine della tensione; elementi che portano lo spettatore a capire che il coraggio di Alfio/Calogero, la sua fragilità e il suo carattere semplice, sono i sentimenti che maturano nel cuore di un vero siciliano. E non invece, il silenzio omertoso e il cannibalismo dei mafiosi.
Paradise è un film leggero, ma che, a un occhio attento, sa rivelare uno scrigno pieno di piccole gemme. Il gioco di specchi dei due Calogero, che si incontrano, si scontrano e alla fine si compenetrano; la vicenda pirandelliana di due Mattia Pascal, che vedono l’uno nell’altro il proprio passato e che vorrebbero semplicemente scrollarsi di dosso quella montagna di attese, aspettative, destini già scritti, legata alle loro vite precedenti. Le maschere sono una facile fuga dal passato, che però torna e tornerà sempre se non si ha la capacità di esorcizzare i propri fantasmi.
Alla fine di Calogero ne rimane soltanto uno; il killer che ha bisogno di un nuovo nome, di una nuova veste che possa rappresentare davvero il passaggio da bruco a farfalla. Alfio torna alla sua famiglia, ne svela i lati oscuri e capisce che neanche quello è il posto per lui. È stanco, troppo stanco, dei compromessi. Ha fatto tanti sacrifici e non intende fermarsi proprio adesso, con una figlia a cui regalare un mondo più bello.
Prende la piccola Marcella tra le braccia, zaino in spalla, esce dall’albergo e va via. Il suo volto, per la prima volta è determinato, senza compromessi; sa che strada imboccare e intende percorrerla fino in fondo. Lo sguardo in macchina buca lo schermo e passa il testimone allo spettatore, il sentiero è tracciato e sta a noi batterlo. È compito di ognuno di noi rifare un mondo all’altezza dei nostri sogni, a costo di ogni sacrificio. Solo dalle nostre mani, potrà venir fuori un destino diverso; col nostro sudore potremo impilare i mattoni e tirar su le pareti del nostro piccolo, personale, Paradise.