Il 21 luglio per gli Stati Uniti è stato il “Barbienheimer day”, sintesi di Barbie e Oppenheimer, i rispettivi film di Greta Gerwig e Christopher Nolan, in uscita in contemporanea, come detto, questo venerdì.
In Italia si è scelto di optare per un lancio separato delle due pellicole che ha dato la precedenza a Barbie, in sala già da giovedì 20, scongiurando così l’ “effetto Lucca Comics” nei cinema, dato che i due film sembrano necessitare di separati outfit, polarizzando i dresscode degli spettatori nell’avrilavignesco binomio rosa/nero.
Chi scrive lo ha visto in una famosa multisala bolognese, col disagio di chi si presenta alle feste con dresscode senza averlo saputo prima, attorniata da ragazzine e ragazzini, adulti di ogni ordine e grado in almeno un capo rosa a testa, di varia tonalità.
Tutto questo avviene non solo perché Barbie è un fenomeno transgenerazionale per il quale vale la retorica sanremese “entra nelle case di tutti”, ma anche grazie ad una campagna di marketing massiccia della quale si parlerà in seguito in questo articolo.
Solo un rapido aneddoto a tal proposito: il circuito The Space distribuisce all’ingresso a tutti i bambini che vanno a vedere Barbie una serie di cartoline adesive sotto le quali si nasconde una Barbie o un Ken, lasciando al caso la possibilità di svelarti chi sei dentro: io, ad esempio, sono Barbie Dua Lipa.
“Lei può essere ciò che vuole, lui è solo Ken”
Sulle suddette cartoline, racchiusa nella “B” rosa, stemma di creazione di Mattel (che peraltro è anche produttore del film) si legge la tagline “Lei può essere ciò che vuole, lui è solo Ken”.
Chiunque abbia giocato con le Barbie da piccolƏ sarà già edottƏ sul principio per cui di Barbie era opportuno averne quante più possibile. Non si poteva infatti pretendere da una sola che fosse adatta al Magico Natale, e anche giusta per Il Lago Dei Cigni, o contemporaneamente una principessa e una amante del campeggio.
Di Ken invece, ne bastava uno solo.
In assenza di questo, si potevano tagliare con le forbici i capelli a Skipper e lasciare che ricoprisse lei il ruolo vacante nella Famiglia Tradizionale. O almeno, questo è quanto ha fatto la sottoscritta finché non ha ricevuto il suo primo e unico Ken, venduto con il castello di Barbie alla stregua di un accessorio, del set di minuscoli calici di vino o del gatto di plastica tutt’al più.
Il film di Gerwig da questo punto di vista rispetta totalmente questo piccolo segreto d’infanzia collettivo.
A Barbieland infatti, le Barbie sono tutto: presidenti, giudici della corte suprema, avvocate, dottoresse, scrittrici, carpentiere.
“I’m just Ken”
I Ken invece sono solo i Ken, non hanno un mestiere proprio, non una propria identità.
Tra tutte queste Barbie ricche di talento c’è poi Barbie Stereotipo (Margot Robbie), “la Barbie a cui pensi quando pensi alle Barbie”. Barbie Stereotipo non è una dottoressa, non va sulla luna e non vince i Nobel, è solo se stessa e vive la sua plastica vita un fantastico giorno alla volta.
Questo almeno finché, con la premonizione di alcuni sintomi assai poco comuni nel mondo delle Barbie (un toast che esce bruciacchiato e i pensieri di morte), la sua vita non viene stravolta dalla “sindrome dei piedi piatti”.
Ovvero, una comune crisi d’identità, per scoprirne l’origine dovrà quindi avventurarsi nel Mondo Reale e trovare un modo per riportare le cose alla loro plastica naturalezza.
Tutti vogliono essere Barbie
Tornando alle cartoline di cui sopra, volendo eleggere a campione rappresentativo la mia esperienza, va detto che di bambini a cui consegnarne ce n’erano tutto sommato pochi.
Il film di Greta Gerwig nutre certamente l’ambizione di raggiungere una fetta di pubblico il quanto più vasta ed eterogenea possibile anche dal punto di vista anagrafico. A quest’ultima ambizione risponde forse un intreccio fiabesco di tipo classico che finisce per rendere il messaggio di fondo in alcuni punti un po’ didascalico.
Nella realtà dei fatti, Barbie, da prodotto avente in primo luogo un taglio fortemente ironico, risulta essere un film godibile principalmente trovandosi in una fascia d’età in cui si è già sviluppato il senso dell’umorismo. Soprattutto, è un film riservato a coloro che abbiano già sperimentato i surrogati vitali dei pensieri di morte: l’ansia sociale, la delusione personale e l’angoscia per il futuro.
Questi sono infatti i problemi che affliggono Barbie Stereotipo, ben riassunti in una piacevole ballata sussurrata da Billie Eilish, What Was I Made For, che chiude una colonna sonora aperta da Lizzo, seguita da Dua Lipa e Nicky Minaj che con Ice Spice si cimenta nel remake di Barbie Girl degli Aqua.
Al name dropping di cui sopra va fatto seguire necessariamente quello di un cast realmente impeccabile, capitanato dalla già citata Margot Robbie col suo sorriso grottesco che piano piano si corrompe e si distende, e Ryan Gosling nei panni di un Ken che è principale quota comica del film. Seguono America Ferrera (se il nome non vi dice niente, immaginatela con gli occhiali e l’apparecchio) e buona parte del cast di Sex Education: Emma Mackey, Ncuti Gatwa, Kingsley Ben-Adir e Connor Swindells.
Un biopic su Barbie
È solo poco prima di arrivare al cinema, sull’autobus che dondola verso la periferia industriale, che mi assale un dubbio che sento di dover esprimere ad alta voce a chi mi accompagna: “ma, alla fine, a cosa è dovuto tutto questo hype?”.
Ad un’attenta analisi condotta nell’arco di due fermate, i fattori sembrano essere essenzialmente tre.
Il primo riguarda per l’appunto le aspettative, totalmente ripagate, sul cast e sulla regista. Al talento rinomato dei protagonisti è necessario aggiungere che Gerwig gode di una voce autoriale ormai riconoscibile nel mondo impalpabile del Grande Cinema, e che ha già esperienza nell’adattamento dei grandi classici dell’infanzia di fruizione tendenzialmente femminile. Si veda a tal proposito quel piccolo capolavoro di contemporaneità che diventa il riadattamento di Piccole Donne (2019) sotto la sua regia.
Il secondo riguarda il soggetto, per la resa cinematografica del quale vale ancora il concetto di “riadattamento”: la bambola messa in commercio da Mattel è a tutti gli effetti un grande classico dell’infanzia, al pari dei libri e dei cartoni animati, e forse è molto di più. Alle storie che il cinema e la letteratura ci hanno sempre offerto, Barbie ha contrapposto la possibilità di crearne di nostre.
Fare un film su Barbie è dunque l’equivalente del fare un biopic su una rockstar. In questo senso, il pericolo che la storia non coincida col nostro ricordo è sempre dietro l’angolo.
Chi di marketing ferisce
E il terzo fattore, infine, non può che riguardare la campagna di marketing.
Merchandising collaterale e dresscode non sono che gli ultimi avamposti di una campagna di marketing imponente iniziata proprio con l’annuncio della condivisione di sala con Oppenheimer (solo in Italia il film debutterà il 23 Agosto). A questa ha fatto seguito seguito il rilascio di un teaser raffinato, poi quello del trailer e della colonna sonora in radio, per non parlare dell’apposito filtro di Instagram e dalla cultura memetica generata.
Due parole a proposito del teaser: nel caso foste stati costretti a guardare 2001 in età inadeguata e vi foste comprensibilmente distratti, il teaser di Barbie è una citazione di 2001:Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick.
È un teaser colto e raffinato, che parla della sua regista, della sua profonda conoscenza del cinema classico (quella di Kubrick non è di fatto l’unica citazione all’interno del film) al quale può permettersi di guardare con ironia. Non è un caso quindi che lo si scopra posto in apertura al film come scena iniziale, sezione nella quale e attraverso la quale si sceglie spesso di racchiudere sinteticamente la poetica degli autori.
… di spoiler perisce
È una scena talmente sorprendente che di fatto poteva meritare la sorpresa dello spettatore, quella compiaciuta da parte di chi può cogliere il riferimento, ma anche quella confusa di chi non può: facoltà, quella di confondere lo spettatore, della quale ci si avvale sempre meno.
A proposito di spoiler, in una contemporaneità in cui il trailer sempre più spesso raggiunge la deriva di una sinossi del film, Barbie si oppone. Il film prende infatti una direzione ben lontana e molto più profonda, in termini sia di tematiche che di umorismo di quella denunciata nel trailer, raggiungendo con intelligente ironia le tematiche che la crisi esistenziale di Barbie Stereotipo porta alla luce.
Dunque, se la domanda è se Barbie soddisfi le aspettative generate da tutto questo hype, la risposta è, genericamente: sì.
Life in plastic
“Life in plastic/it’s fantastic” cantavano gli Aqua, ma nella citata cover di Nicky Minaj e Ice Spice, di questi versi non resta che la traccia cantata in sottofondo. È uno slogan che si vorrebbe forse più inattuale di quanto realmente sia, ma nel film di Gerwig si configura davvero come un sottofondo musicale.
Su questo sottofondo, proprio come fanno Minaj e Ice Spice, Gerwig prova a riscrivere.
E quanto la regista riadatta è proprio il futuro di questa stessa affermazione – e, forse, in questo caso potrebbe venire in soccorso dei giovanissimi l’impianto didascalico – non demonizzandola, ma portandone alla luce l’innaturalezza.
Barbie di Greta Gerwig indossa le Birkenstock e si reca nel mondo reale non per un reale desiderio di conoscenza, ma per un banale impulso al riportare le cose alla loro normalità. Non è il coraggio, ma la paura che le cose cambino ad animarla.
Sarà proprio quest’ultimo umanissimo sentimento, la paura del cambiamento, a produrre la trasformazione di Barbie Stereotipo nella versione di Barbie più onesta che Mattel abbia mai messo in commercio: Barbie Crisi Esistenziale.
Il rosa sta bene con tutto
Volendola immaginare -e nel film si fa molto più che immaginarla, la si pubblicizza– Barbie Crisi Esistenziale veste abitini sciatti o fuori taglia per la sua nuova forma fisica. Ha i capelli crespi, non domabili dalla spazzola di plastica. Viene venduta corredata da oggettini di cui non riconosce più il significato: c’è la minuscola macchina fotografica che non usa più, il pianoforte di cui ha preso una lezione, il pc aperto sui siti per trovare lavoro appiccicabili con lo sticker allo schermo.
Non sa ancora come verrà commercializzata (si ricorda che non è un’astronauta né una dottoressa, e forse ha preso una laurea umanistica) e se verrà comprata, e comunque sorride grottesca da dietro la pellicola trasparente.
Ma se osservate bene, un po’ più da vicino, vi accorgerete che quel sorriso è per lo più una paresi, un gesto appreso per mascherare tutto il resto. E quella posa impeccabile fra i suoi oggettini altro non è che il prodotto di mille fascette di plastica che la legano al fondo della scatola.
E nel guardarla adesso di nuovo da lontano non potrete che convenire sul fatto che il rosa sta davvero bene su tutto, anche sulla crisi esistenziale.