Amburgo è una città al confine. Pochi chilometri la dividono dalla cortina di ferro, un limite non solo geografico, ma mentale, politico, immaginifico. Come una fortezza nel deserto si staglia, osserva e aspetta che il futuro si sveli davanti ai suoi occhi; per ora, il presente è di miseria e di profonda incertezza. Attraversata da un fiume che la divide da terre barbare, affacciata su un bacino marittimo che non porta da nessuna parte, sente un gelido vento sovietico che soffia tra le strade; sono le dita dello spettro che ormai da un secolo si aggira per l’Europa infiammando i cuori dei proletari e, stavolta, non c’è l’amico americano a proteggerla.
La Germania degli anni ’70 è un paese diviso in due. Da un lato la Germania Est, sotto il controllo sovietico, dall’altro lato quella Ovest proiettata verso l’Europa; la nazione è attraversata da confini, geografici e umani, e illuminata da scontri non ancora sopiti. Ad Amburgo sono arrivate solo lontane eco dei colpi di pistola sparati dalla Rote Armee Fraktion e dalla banda Baader-Meinhof, ma i governanti, per evitare che la cortina di ferro inghiotta anche la città, hanno deciso di usare il pugno di ferro in città. Per questo, carcere e caserme sono diventati laboratori di tortura, di controllo, di repressione; hanno varcato il confine dell’umanità, per non varcare quello dell’occidente.
Una simile inquietudine, scrolla anche le fondamenta del mondo cinematografico tedesco, all’inizio degli anni sessanta. Nuovi autori e nuovi registi, sentono sempre più forte l’esigenza di potersi esprimere al meglio, senza doversi preoccupare di questioni di ordine economico o commerciale; da qui, anche la voglia di riportare la realtà sulla pellicola, superando quella rappresentazione teatrale e troppo finta, archetipica di un modo vecchio di fare cinema. Cineasti come Kluge e Straub, prima, o come Fassbinder e Herzog, poi, partono da questi presupposti per dare nuova linfa al cinema tedesco, creando una corrente cinematografica che poi prenderà il nome di Junger Deutscher Film.
Wim Wenders, regista tra gli altri de L’amico americano (1977), fa parte della seconda generazione del Nuovo Cinema Tedesco, insieme a Herzog e Fassbinder. Le suo opere sono una riflessione sulla condizione umana; i protagonisti sono esseri alla ricerca di un destino, un senso. Animali feriti, sconfitti dall’esistenza, che provano a rialzarsi e a scavare una trincea contro i marosi della vita; spesso invischiati in labirinti di quotidianità, da cui stentano a venir fuori, legati alle consuetudini, a una immagine di sé immutabile nel tempo. Esseri smarriti al confine tra noto e ignoto, tra vita e morte, legati al passato ad un passo dal futuro.
L’amico americano, uomini al confine tra bene e male
Jonathan Zimmerman di confini se ne intende. Vive a due passi dal porto di Amburgo, in una città divisa tra Est e Ovest; ma come se non bastasse, i confini li costruisce addirittura: fa il corniciaio. Mettendo insieme dei piccoli listelli di legno, incollandoli e incastrandoli uno nell’altro, marca il limite tra realtà e finzione, tra il quadro e la realtà circostante. Tutto sommato, anche la sua vita sembra seguire questo stesso filo conduttore; è sposato, porta avanti un’attività che gli permette un discreto agio economico e nel suo ambito è riconosciuto e rispettato. Ha costruito la sua personale cornice esistenziale, in cui inscrivere una vita tranquilla, quasi noiosa.
Legami e confini, corde che legano e barriere che limitano. Limiti fisici, ma soprattutto morali, esistenziali, sentimentali. Jonathan Zimmerman rappresenta il tipico uomo buono; sincero e trasparente, marito amorevole e ottimo padre di famiglia. La sua vita si divide equamente tra il lavoro e la famiglia, senza altri grilli per la testa; un uomo quadrato, inquadrato. Per lui le cornici non sono solo una professione, ma un modo di essere, una forma mentis. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo; una sconosciuta, inaspettata malattia del sangue spariglia le carte in tavola. Tutti i progetti, tutti gli sforzi, buttati al vento da un nemico ignoto.
Un piccolo virus, sconosciuto e invisibile, che sconvolge fin nelle fondamenta la vita di Jonathan; come un fiocco di neve che si sposta, dando avvio a una reazione a catena che porterà fino alla valanga. Ma che il futuro dei Zimmerman sia un gigante dai piedi d’argilla non è una rivelazione legata solo alla malattia del capo famiglia; i tre abitano in un palazzo che presto verrà demolito, sembra quasi un isolotto in mezzo al nulla. Cosa sarà di loro? Jonathan e sua moglie sembrano non preoccuparsi, ma questa precarietà si riflette, volente o nolente, nei piani e negli orizzonti familiari, prestando il fianco a ogni genere di speculazioni.
A causa di quel morbo, la signora Zimmerman dovrà iniziare a lavorare in una casa d’aste, per dare una mano al marito che ormai col negozio non naviga in ottime acque. Tra quadri e anticaglie, Jonathan incontrerà un uomo enigmatico, un punto interrogativo esistenziale: Tom Ripley. Un cowboy solitario e taciturno, un po’ mercante e un po’ falsario, ma decisamente attratto dalla figura del corniciaio.
Ripley vorrebbe diventare l’amico americano di quel tedesco schivo, dal sangue avvelenato ma dall’occhio fine.
Quell’uomo sconosciuto sarà lo psicopompo che traghetterà l’anima di Zimmerman dal mondo dei vivi a quello dei morti; l’incontro con Minot, l’immersione nel milieu francese, la trasfigurazione da corniciaio ad agente di morte. L’esotismo che gli Stati Uniti rappresentano agli occhi della Germania divisa, per l’artigiano baffuto diventa l’occasione per fuggire da quella prigione che, come una cornice, ha costruito con le sue mani. Non ne può più di quella borghese e anonima rispettabilità; prima di diventare carne morte, vorrebbe sentirsi vivo almeno una volta.
Ma certi confini non andrebbero mai oltrepassati; da certi mondi, da certi luoghi, non si torna mai indietro. Quando si impugna il freddo calcio di una pistola e si preme il grilletto; quando si sente la vibrazione di un’anima che spira, che vola via, dipanarsi dalla mano gelida, fino al cuore. Non c’è oblio possibile. Sensazioni che distruggono un’esistenza, impossibili da dimenticare o da cancellare via con un colpo di spugna. Jonathan ha sparato sé stesso in quella pallottola, e non potrà mai più far ritorno dentro il suo corpo, nella sua casa, nella sua vita.
L’estetica de L’amico americano
L’amico americano è un film che parla di legami e di confini, di esseri divisi tra morte e vita, tra bene e male. La condizione del protagonista, Jonathan Zimmerman, viene descritta perfettamente da Wenders attraverso una serie di strumenti narrativi e cinematografici. Innanzitutto la malattia, sconosciuta e imprevedibile, che subito lo rende un uomo in bilico, sotto la costante minaccia di un decesso improvviso. I viaggi che il protagonista intraprende per incontrare il medico e fare gli esami sembrano quelli di Alice, che attraversa lo specchio per incontrare il bianconiglio; è tutto ricoperto da un’aura di mistero, di disvelamento continuo, come se si passasse da un mondo di realtà a uno di fantasia.
A questo elemento è possibile aggiungerne almeno un altro, altrettanto fondamentale: il mestiere di corniciaio, simbolo archetipico della necessità umana di inscrivere la propria esistenza entro dei contorni ben definiti. Una delle scene iniziali de L’amico americano è emblematica in questo senso: Zimmerman viene inquadrato nella sua bottega mentre, trasognato, si guarda intorno, immerso quasi tra spezzoni di cornici; ne sta ultimando una, la maneggia e la osserva, ne saggia la consistenza e controlla se gli angoli combaciano. Poi, con tutta naturalezza se la infila sulla testa, rappresentazione perfetta di come il suo intero immaginario possa inscriversi entro una cornice di borghese normalità.
L’ingresso di Tom Ripley nella sua vita è un nuovo inizio, come se nascesse di nuovo. La stanza di Ripley, ripresa con intervalli contemporanei rispetto alla scena della cornice, è completamente tappezzata di tende rosse, lenzuola rosse; sembra quasi un grembo palpitante, materno, gravido, da cui venir fuori per nascere, o rinascere. La stanza rossa diventa solo una macchia rossa, che interrompe il biancore della villa dell’americano, seguendo la direttrice di una cromaticità carica di significato, caratteristica tipica delle pellicole di Wim Wenders. Il fil rouge che inizialmente lega Ripley e Zimmerman, da quel momento in poi si tramuterà in un fil blanche, biancore che segnerà tutti i legami che da quel momento in avanti determineranno la vita del corniciaio baffuto.
Guarda caso, anche gli interni della bottega di Zimmerman sono bianchi, leggermente sporchi dalla scarsa luce interna; così come bianca è la Cadillac de l’amico americano, che sfila fuori dalle finestre, prima che i due si ricongiungano. Di lì a poco, Jonathan farà l’incontro che gli cambierà per sempre la vita, quello con Minot, l’esponente del milieu, la criminalità francese, che vuole assumerlo come assassino per una volta; la sciarpa candida del francese è l’ultimo tassello del puzzle della casualità disegnato dal regista.
Il bianco, in questo caso, non è simbolo di innocenza, purezza, visti i propositi criminali dei tre; ricorda più il colore appena sporco di una tela immacolata, che aspetta solo di essere violata. Per una volta, il corniciaio smette i panni di artigiano e può indossare quelli dell’artista; accettando le lusinghe e l’incarico del francese, finalmente Jonathan può disegnare i tratti di una vita desiderata. Si sente finalmente veramente artefice del proprio destino, non più condannato a un’esistenza confinata e racchiusa in una piccola nicchia di realtà.
D’improvviso, la narrazione subisce un’accelerazione repentina. Il mondo in cui si è affacciato Jonathan Zimmerman, trascinato dall’esotismo che l’amico americano ha suscitato in lui, è totalmente sconosciuto, impossibile da penetrare per lui. Non appartiene a quel contesto di revolver nascosti nelle tasche degli impermeabili, di neon delle insegne che illuminano marciapiedi sporchi di piscio e di bar con banconi popolati di sfregiati e prostitute a buon mercato. Purtroppo per lui, se ne renderà conto troppo tardi, quando ormai il confine è varcato ed è impossibile tornare indietro.
Il primo step, il disconoscimento, viene reso dal regista in maniera chiarissima con la sequenza del primo omicidio in metropolitana. Subito dopo lo sparo, pistola ancora calda in mano, il corniciaio scappa via dal luogo del delitto; corre sulle scale mobili al contrario, come se volesse tornare indietro nel tempo e cancellare tutto. Nella scena immediatamente successiva, la fuga viene inquadrata attraverso una serie di schermi di telecamere a circuito chiuso; tutto viene osservato a distanza di sicurezza, dietro uno schermo, stendendo un velo di finzione televisiva su quanto appena successo. La corsa finisce sull’ultima scala mobile, prima di venir fuori dal mondo sotterraneo: inquadratura stretta dall’alto, come presenza eterea che osserva il proprio corpo incapace di reagire; per poi sbucare su una piazza sconosciuta, con sul viso un’espressione di smarrimento, geografico ed esistenziale.
Oltre lo specchio, si affaccia l’opposto di Jonathan Zimmerman; entrato nel mondo di Minot, il milieu, e di Tom Ripley, l’amico americano, il corniciaio non si riconosce, non è più lo stesso. Dal momento in cui sceglie, consapevolmente o meno, di prestarsi al gioco dei due, l’uomo baffuto ruzzola sempre più in profondità nella tana del bianconiglio; si smarrisce in quel mondo che credeva fosse da sogno, ma si è rivelato da incubo. La reazione a catena che ha innescato è ormai inarrestabile, come un treno in corsa che non fa fermate intermedie; quello stesso treno che diventa scenario dell’atto finale de L’amico americano.
La “Pellicola dimenticata” di Wim Wenders
Stretta a metà tra la trilogia della Strada e le pellicole degli anni ’80 che consacreranno il genio di Wim Wenders, L’amico americano è una pellicola spesso costretta in secondo piano rispetto ad altre più rinomate. Nonostante questo, però, rappresenta una svolta fondamentale nella poetica wendersiana, anticipando di poco strumenti e storie che di lì a poco saranno ripresi in altri film, come Paris, Texas (1984) e Il cielo sopra Berlino (1987).
Come per L’amico americano, anche ne Il cielo sopra Berlino, il protagonista è alle prese con una profonda crisi di coscienza; si pone domande e quesiti a cui non riesce a rispondere, ha dubbi che la realtà in cui è immerso è incapace di colmare. Divisi a metà tra il mondo dei morti e quello dei vivi, sia Jonathan che Damiel conducono un’esistenza insoddisfacente; costantemente in bilico, alla ricerca di una strada, di un destino. Uomini che si battono per una rinascita, sentono forte questa spinta a superare i propri limiti, ad andare oltre sé stessi.
Damiel vuole smettere i panni dell’immortalità per creare un proprio epos personale; anticipato di poco da Jonathan, quest’uomo ordinario che vorrebbe lasciare un’impronta di sé nel mondo, che non si accontenta dell’anonimato in cui si vede relegato dalla quotidianità. Entrambi sarebbero disposti a sacrificare quel poco che hanno, in nome di una promessa, della speranza di un futuro diverso, all’altezza dei sogni che albergano il loro cuore.
De L’amico americano, in Paris, Texas è invece possibile ravvisare due elementi filmici molto forti. Innanzitutto, l’impiego di albe e tramonti come supplementi narrativi. Ad esempio: Travis che osserva la ricongiunzione di madre e figlio da lontano, mentre sullo sfondo il tramonto di Houston cala il sipario su tutta la vicenda; allo stesso modo, Jonathan e la moglie accompagnano Tom Ripley nell’ultima, disperata impresa, mentre una pallida alba regala la speranza di un nuovo inizio. In entrambe le situazioni prese ad esempio, la specifica connotazione temporale fa da amplificatore intimo delle sensazioni dei protagonisti: Travis che cerca ristoro nella notte dal sole cocente nel deserto; Jonathan che desidera un nuovo inizio, dopo le disavventure con l’amico americano.
Secondo elemento è l’utilizzo di luci brillanti e colorate, sorta di aureole postmoderne che brillano sulla fronte di questi angeli della desolazione. Tra notti livide e cieli plumbei, è impossibile non notare la riproposizione di neon verdi che dominano ambienti, scene, narrazioni; una luce artificiale, un colore quasi alieno, che ricopre gli oggetti, trasfigura i volti e le espressioni. Travis steso sul lettino del medico nel deserto, Ripley che scatta polaroid solitarie sul tavolo da biliardo, Zimmerman che gode della paga del crimine tra le strade di Parigi. Il verde come manifestazione inequivocabile di un’alterità rispetto al mondo circostante, di una sartriana nausea esistenziale che affligge l’anima, senza requie.