Oldboy – Quando il Manga incontra il Cinema

Luca Mancini

Ottobre 11, 2019

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Il fumetto e il cinema sono due arti la cui vicinanza si è fatta più evidente negli ultimi anni. Aldilà del numero sempre crescente di cinecomic nelle sale, l’influenza della carta stampata si palesa anche in un certo metodo di scrittura per immagini che ha preso piede di recente e di cui Oldboy ne è uno dei migliori esempi. Non a caso su molti siti specializzati le vignette fumettistiche vengono paragonate alle inquadrature del medium cinematografico, per il loro modo di isolare alcune parti dello spazio liberamente scelte dall’autore.

L’idea di fondo è come ci sia una scena molto ampia che si svolge intorno all’occhio del regista/scrittore, e, tuttavia, essa venga mostrata un’immagine per volta. Lo spazio della scena è enorme, trattandosi di un mondo pieno di vita in cui idealmente avviene la narrazione della vicenda a cui assistiamo. C’è dunque, come nel fumetto, una continua tensione tra lo spazio limitato che vediamo e tutto quello che accade al di fuori di esso.

Sebbene i due mezzi espressivi mantengano una propria identità ben precisa, ci sono stati dei momenti nella storia dell’uno o dell’altro in cui il confine che li separa si è assottigliato, cosicché i due si siano trovati a stretto contatto. Uno di questi momenti è avvenuto nel 2003, quando in Corea del Sud uscì Oldboy, film che segnò l’esplosione del talento di Park Chan-wook. Oldboy è un cinecomic, anche se atipico. Il fumetto originale uscì negli anni tra il 1996 e il 1998, e la pellicola mantiene un legame molto stretto con l’opera di partenza. Un legame che si palesa soprattutto in un momento preciso.

oldboy

La narrativa immaginifica di Olbdoy dichiara la sua specificità sin dal principio. Il film di Park Chan-wook adotta un registro moderno ed elettrico, basato sulla giustapposizione di eventi vicini nel film ma cronologicamente lontani. Muovendosi abilmente nel flusso del tempo in maniera libera, la pellicola provoca nello spettatore sentimenti contrastanti, trasportandolo all’interno di un meccanismo che, come le inquadrature, isola determinati momenti della storia della Corea del Sud e della vita del protagonista. La scrittura del tempo trova presto una naturale estensione nella scrittura delle immagini.

Intorno al minuto 39, il protagonista Dae-su riesce a trovare il luogo in cui è stato rinchiuso per 15 anni. All’interno del palazzo, un uomo seduto su una sedia al centro di un corridoio lugubre e spoglio sta leggendo un manga. La macchina da presa indugia per qualche secondo sul volume stretto fra le mani del personaggio, quasi a voler rimarcare la provenienza del film. Dopo un paio di inquadrature, il regista guida il nostro sguardo verso lo stesso manga, questa volta aperto a faccia in giù, sul suolo. La successiva ripresa è riservata agli occhi dell’uomo, in cui intravediamo un evidente sentimento di paura.

L’ultimo dettaglio riguarda la punta di un martello, e subito il nostro cervello compie le dovute associazioni, prima ancora che le successive inquadrature, questa volta più lontane, ci rivelino la situazione. È Dae-su che tiene in mano il martello puntato verso la testa dell’uomo. Park Chan-wook decide qui di tracciare letteralmente una linea tratteggiata che traduce visivamente un’anticipazione di quello che sta per succedere.

Questa breve sequenza composta di pochi fotogrammi, in cui il movimento della macchina è ridotto all’osso, è molto vicina al metodo narrativo del fumetto. Quasi come fossero vignette, esse costruiscono una situazione attraverso dei dettagli prima di renderla interamente comprensibile allo spettatore. Un efficace meccanismo di creazione della suspence che attraverso il dettaglio limita la nostra visione. Del resto, molte teorie sul cinema sostengono di come sia tanto importante l’inquadratura quanto il fuori campo.

Non è difficile immaginare la stessa scena trasportata sulle pagine di un manga qualsiasi. Il linguaggio è molto simile, i tempi anche. Tuttavia, il sistema rende visibile la prima piccola crepa, nel momento in cui, attraverso uno zoom indietro, il regista si allontana lentamente dai personaggi inquadrandoli per intero. Un’affermazione di identità da parte del medium cinematografico, le cui tecniche e possibilità sono evidentemente diverse da quelle della carta stampata.

La sequenza successiva ci presenta un nuovo personaggio: l’uomo che gestisce la struttura di prigionia, su cui Dae-su sfoga la propria foga vendicativa. Anche questa scena è costruita attraverso un sistema di dettagli e totali alternati, in una maniera ancora vicina al fumetto anche se leggermente più cinematografica. L’utilizzo sistematico dello zoom in avanti o indietro dona movimento alle inquadrature fisse, come se lo spazio dell’inquadratura non fosse mai sufficiente e avesse bisogno di essere allargato o ristretto all’occorrenza.

La scena seguente è quella maggiormente notevole e significativa, una delle più magistrali esecuzioni registiche ed attoriali del 21° secolo. Si tratta della scena in cui il protagonista deve combattere contro gli scagnozzi del proprietario del palazzo all’interno di un corridoio. Park Chan-wook decide di utilizzare una singola inquadratura laterale mobile, attraverso cui riprende per intero la lunghezza dei corpi ma non quella del corridoio. Piuttosto che alternare diverse riprese, il regista preferisce muoversi con un long-take sullo stesso asse, come se potessimo muoverci all’interno della stessa vignetta per seguire i movimenti dei personaggi.

Piuttosto che lavorare su tre dimensioni, il regista decide di realizzare uno spazio bidimensionale in cui conta solo la dimensione orizzontale. Il combattimento si svolge allora adottando un linguaggio simile a quello di alcuni famosi videogiochi di genere picchiaduro come Tekken, che hanno costruito la propria identità proprio sull’orizzontalità degli spazi. Park Chan-wook mostra la sua bravura nel rielaborare riferimenti pre-esistenti attraverso le peculiarità della macchina da presa.

In Oldboy la scrittura per immagini fisse viene coadiuvata da meccanismi propriamente cinematografici, dimostrando la bravura di Park Chan-wook nel realizzare un cinecomic che riprende e trasforma il materiale di partenza per realizzarne qualcosa di nuovo. Non migliore, ma diverso. Un’opera che mantenga la propria identità e si attesti non come sostituto, ma come supplemento rispettoso del manga. In questo modo, il cinema si sublima affermandosi come medium privilegiato per raccontare in maniera nuova una storia pre-esistente di matrice fumettistica.

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