Tra Scola e Sorrentino: dialogo immaginario su una terrazza romana

Alessandra Cinà

Novembre 24, 2020

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Quanta nostalgia e quanto fallimento si respira in ogni terrazza romana abitata da intellettuali borghesi, i cosiddetti privilegiati depressi che si riuniscono per parlare del più e del meno, o semplicemente per sentirsi meno soli o ancora, per ostentare i loro successi agli amici solo per convincersi di non esser dei falliti, di non appartenere a una generazione che ha perso i loro ideali per inseguire la gloria, lasciando solo macerie e cattivi esempi ai giovani in procinto di affacciarsi al futuro.

Quello che vogliamo realizzare è un filo logico che colleghi tre film apparentemente senza troppe connessioni tra loro: C’eravamo tanto amati, La terrazza e infine La Grande Bellezza.

Vi starete chiedendo cosa colleghi i primi due film firmati da Ettore Scola alla grande bellezza sorrentiniana, laddove generalmente i parallelismi con quest’ultimo film si tende a farli con le atmosfere della dolce vita felliniana e con quel Marcello Rubini che immalinconisce e al contempo fa riflettere.

Ma analizzando queste tre opere si è giunti alla conclusione che i primi due (strettamente legati, quasi fossero l’uno la continuazione dell’altro) completino il terzo: quasi che i piccoli dettagli rinchiusi nelle frasi pronunciate dai personaggi de La terrazza e di C’eravamo tanto amati, ci aiutino a comprendere meglio alcune sfumature dei protagonisti de La Grande Bellezza.

Ma adesso lasciamo la parola ai nostri protagonisti, che s’incontrano in un’ampia terrazza nel cuore di Roma in un tempo imprecisato: si riuniscono per parlare del più e del meno, sono vestiti in maniera elegante, pronti a sfoggiare il loro sapere e a far valere le loro ragioni, con il Colosseo, maestoso e imponente, che si accinge ad assistere malinconico a quest’incontro.

La serata inizia tranquillamente, i nostri “privilegiati” sono seduti in ampie poltrone bianche ricoperte da teli colorati, immersi in cuscini a righe, attendono la cena mentre discutono animatamente di letteratura e politica quando improvvisamente l’avvocato Gianni Perego esclama: «la nostra generazione ha fatto veramente schifo!».

Alla scopertà della quintessenza dell'uomo, in una terrazza dove s'incontrano la Roma malinconica di Scola e quella spietata di Sorrentino

C’eravamo tanto amati: Gianni Perego, Antonio e Nicola Palumbo

Cala il silenzio, cessano le risate e le discussioni, la terrazza sembra pietrificarsi. Ma la replica non tarda a farsi sentire:

Jep Gambardella: «Voi sareste dei falliti? Ma per piacere, avete fatto la guerra, avete lottato coraggiosamente contro i tedeschi nelle fila partigiane, e adesso siete tutti professori, giornalisti, politici e avvocati di successo, qua semmai quello che ha fallito sono io».

Romano: «Tu? Ma finiscila, sei un grande scrittore, il tuo libro, L’apparato umano, ha fatto la storia della letteratura contemporanea. Pensa invece a me che non riesco più a scrivere una sceneggiatura che sia degna di nota, non riesco nemmeno a farmi volere bene da quella ragazza che è mia fidanzata a convenienza, tu hai avuto tutto e ancora oggi continui ad avere successo, mentre a me sono rimaste solo le briciole di un passato glorioso».

Luigi: «Facciamo una cosa, diciamo invece che abbiamo sbagliato tutti, e volete sapere di chi è la colpa? Del crollo degli ideali, non sostituiti da altri valori, ma guardateci, cosa siamo diventati? Eravamo pieni di aspettative, volevamo essere d’esempio per i giovani e invece gli stiamo lasciando solo disillusioni e macerie».

Mentre i commensali riflettono sulle parole del giornalista, un uomo, dapprima rimasto in disparte, si alza dalla sua poltrona e urla: «basta, io non vi sopporto più». È la voce di Mario, deputato del PCI, che continua a scagliarsi contro i suoi interlocutori: «e smettetela di guardarmi con queste facce da imbecilli, siete tutti cosi miseramente frustrati, e continuate a far finta di nulla, pur di non accettare in cosa vi siete trasformati, siete senza ispirazione, infelici, maledettamente improduttivi, incompresi da tutti, persino da voi stessi, e la cosa peggiore è che… che siete il mio specchio, siete il mio esatto riflesso».

Romano: «Ma che vor dì?».

Nicola Palumbo: «Che volevamo cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi, ci ho messo più di vent’anni per capirlo, ho perso tutto per inseguire un ideale, una passione: quella per il neorealismo. Mi sono visto la vita passare davanti, senza poterla fermare, credendo che sarei rimasto giovane per sempre e che il mondo e la società mi avrebbero finalmente capito e apprezzato, mah… forse era meglio se continuavo a fare il professore nella mia bella Nocera Inferiore, forse sarei stato non felice, ma appagato, come il mio amico Antonio. Forse sarebbe stato meglio non inseguire un’impossibile felicità e prepararmi qualche piacevole ricordo per il futuro».

La Grande Bellezza: Romano e Jep Gambardella

Mario: «La felicità, cosa sarà mai questa sconosciuta? A volte mi domando se sia lecito essere felice anche se questo crea infelicità e scompiglio».

Gianni Perego: «Ti stai chiedendo se essere onesto o felice. Non posso dirti molto sull’onestà, ma se sceglierai la seconda opzione, ti consiglio di non fartela scappare, perché la felicità, anche se non sarà mai completa, prima o poi ti appagherà e non ti farà rimpiangere nulla, ah, se potessi tornare indietro… Jep tu che ne pensi? Hai parlato poco finora, dì la tua».

Jep: «Che non è tutto oro quello che luccica. Mi spiego meglio: bisogna saper scegliere la felicità. Spesso quella che noi scambiamo per tale è solo momentaneo appagamento, e smettiamo pure di essere onesti con noi stessi. La felicità, se esiste, va ricercata come si ricerca la bellezza. Costantemente, dando importanza alla proprie radici, senza cadere nel baratro, senza accontentarsi mai, vivendo appieno ogni giorno, anche se questo ti porta a essere incompreso e non amato da tutti. Perché colui che riesce a trovare la felicità autentica, o comunque una forma di appagamento tale, riesce anche a essere onesto con la sua anima, con la sua essenza più profonda, e purtroppo non tutti questo riescono a comprenderlo».

Enrico: «Sì, ma adesso basta parlare così, già uno sta male perché non riesce più a scrivere, se vi ci mettete anche voi…».

Alla scopertà della quintessenza dell'uomo, in una terrazza dove s'incontrano la Roma malinconica di Scola e quella spietata di Sorrentino

La terrazza: Enrico

Jep: «Cosa sentono le mie orecchie, anche tu, noto sceneggiatore, non riesci più a scrivere?».

Enrico: «Onestamente non lo so, credo di impazzire sai, ma forse tutto dipende non da me, e nemmeno dagli altri, ma dal paese che cambia in maniera cosi costante. Anzi, sai che ti dico? Che la gente è diventata incontentabile, cerca sempre di più, vuole di più, è diventata vuota, incapace di inseguire i propri ideali, sono intellettuali che vogliono adattarsi alla modernità, ma al contempo rimangono chiusi nelle loro nicchie, così meschinamente legati al passato. Il romanzo è morto e loro l’hanno ucciso».

Jep: «So benissimo a chi ti stai riferendo, agli indolenti intellettuali, loro che credono di sapere tutto e che solo le loro idee hanno un senso, come la mia amica Stefania che si vanta di essere moderna, di essere donna, madre, moglie e scrittrice. Ma la realtà e tutt’altra cosa: il marito la tradisce, lei non sta mai con i suoi figli per via del lavoro ed è ricordata da tutti non solo per le sue doti da scrittrice e politico, ma anche per altre abilità che si consumavano nei bagni delle università…».

Enrico: «Esatto, mi riferisco proprio a queste persone… tu invece che problema hai? So che dopotutto continui a scrivere per varie riviste».

Jep: «Credo di averlo capito da poco, dopo un’introspezione durata circa trent’anni. Adesso devo solo riuscire a scorgere la grande bellezza, ma la questione non è questa. Ebbene, io non riesco più a scrivere perché, a differenza tua, non è la gente che è diventata incontentabile, ma io stesso. Volevo diventare il re dei mondani, il padre di tutte le feste, ma in realtà ho soltanto perso di vista quello che sarei dovuto essere, le mie radici, la mia ingenuità. Il lusso di questa vita mi ha soffocato, mi ha fatto diventare finto, di plastica, cinico… proprio come quegli intellettuali che hanno ucciso il tuo di romanzo. Sono diventato quello che odiavo in gioventù».

Luigi: «Ma finiscila, lo so io qual è il tuo problema. Lo vuoi sapere qual è? Tu sei negativamente emblematico. Mi spiego meglio: la tua pigrizia è dovuta al lavoro che ormai dopo tanto tempo credi di saper fare, e questo non ti dà più dubbi né ansie. Sai qual è la tua disgrazia? Possedere l’intelligenza dei sentimenti mentre accadono, tutto qua».

terrazza

La terrazza: Luigi

Jep: «E che sarebbe questa intelligenza?».

Mario: «In breve, Luigi ti ha voluto dire che la tua sensibilità non è riuscita a sopravvivere all’interno di tanta frivolezza, proprio come il mio amico Sergio… lo vuoi un consiglio? Dovresti fare come ho fatto io poco fa».

Jep: «E sarebbe?».

Mario: «Riconoscere, così ad alta voce e davanti all’intera terrazza, cosa non va in te, perché sei così amareggiato e vuoto, che magari facendolo non solo ti sfogherai, liberandoti da questo peso com’è accaduto a me, ma potresti avere persino un’epifania».

Jep: «Non posso, non ci riesco. Siamo tutti sull’orlo della disperazione, guarda Romano, guarda me, abbiamo una vita distrutta, l’unica consolazione che ci rimane è quella di farci compagnia e guardarci in faccia senza continuare a stare male o deprimerci, ricordando a noi stessi quello che abbiamo sbagliato, quello che ci ha condotto a questo punto, senza più motivazione. Ho sessantacinque anni e una vita a pezzi, è semplicemente penoso!».

Romano: «Sai che però potrebbe avere ragione? A un certo punto bisogna smettere di fingere che tutto sia splendido e affrontare la realtà, ammettendo anche le proprie debolezze. Mi chiamo Romano e sono un sceneggiatore ormai sull’orlo della disperazione, anche il mio romanzo è morto, Enrico, tutto manca di motivazione e io non riesco più a sopportarlo. Devo andarmene se voglio continuare a respirare, devo abbandonare questa città che mi ha dato tanto, ma che in cambio ha preteso da me l’anima. Credo proprio che ritornerò al mio paesino, là tutto è quiete e tranquillità, là starò bene, ne sono sicuro, potrò riflettere e magari un giorno ritornare alla scrittura».

Gianni Perego: «Sì, ma adesso basta con questa nostalgia. Tanto vale, come ha detto Jep, non immalinconirci».

Romano: «Ma si può sapere che avete contro la nostalgia? È l’unico svago per chi è diffidente verso il futuro».

Jep: «Se ci pensiamo bene, guardare al passato non è un dramma, anzi serve per ricordarci che prima della morte c’è stata la vita, nascosta sotto il “bla bla bla”: sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dall’imbarazzo dello stare al mondo».

Luigi: «Credo tu abbia ragione! Ripensare al mio passato di giornalista appagato mi fa stare meglio… ma come siamo diventati così? Meglio non continuare a pensarci… parliamo piuttosto, che so, del nostro paese che cambia in continuazione».

terrazza

La terrazza: Luigi, Enrico, Amedeo e Mario

Mario: «Ma speriamo cambi per il meglio, questi ragazzi di oggi mi sembrano così vecchi».

Gianni Perego: «Forse sono solo più saggi e coscienziosi di quanto non lo siamo stati noi in gioventù. Poi a me sembrano così pieni di vita, guarda le tante battaglie che stanno portando avanti, hanno una nuova forza, una nuova volontà».

Jep: «O forse, sono semplicemente partiti con tante buone intenzioni e poi sono stati anche loro risucchiati da questa fauna e credono ancora di appartenere a qualcosa di giusto, a qualcosa per cui valga la pena alzarsi al mattino. Ma la realtà è che ogni giorno scorre uguale all’altro, tutto è diventato monotonia, tutto è diventato insipido, ma in cambio hanno l’ammirazione di tutti».

Mario: «E tu eri uno di quelli?».

Jep: «Forse».

Enrico: «Non dirlo nemmeno per scherzo; noi, io ho fallito e sono caduto nel baratro della follia come Luigi o Mario o ancora il povero Sergio, ma tu non deluderci, tu sei ancora in tempo».

Luigi: «Sì, questo paese ha bisogno di scrittori, noi ormai facciamo parte del passato, ma tu puoi ancora affacciarti al futuro».

Mario: «Non deluderci».

Gianni Perego: «Dimostraci che c’è ancora una speranza, provalo prima di tutto a te stesso. In questo modo potrai anche riscattare noi poveri miserabili».

Jep: «D’altronde, è solo un trucco».

terrazza

Jep Gambardella

Cala nuovamente il silenzio sulla terrazza. I sette uomini sembrano aver esaurito le parole, forse sono stanchi o hanno semplicemente acquisito nuove certezze.

La serata procede tranquilla, nel silenzio, quando una voce esterna grida: «è pronto!».

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