Le otto montagne – Tra legami e separazioni

Francesco Saturno

Aprile 12, 2024

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Le otto montagne è un film del 2022 tratto dall’omonimo libro (vincitore del premio strega 2017) di Paolo Cognetti. La sua riproduzione cinematografica è diretta dai belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch e ha come protagonisti Alessandro Borghi e Luca Marinelli, i quali sono così ritornati a recitare insieme dopo il fortunatissimo film del 2015 Non essere cattivo. La presenza di Filippo Timi non passa altresì inosservata.

Copertina del libro, edito Einaudi, da cui è tratto il film

Il film, girato interamente in 4:3, e lungo più di due ore, consente allo spettatore di fare un’esperienza visiva di qualità. Quel 4:3 rende tutto molto anacronistico, a dire il vero, eppure ci si immerge nella narrazione diegetica sin da subito, perché inscena circostanze che sanno di autenticità e di natura.

L’unione

In effetti, questa, si presenta innanzitutto come una storia sui legami, quelli imposti, e cioè familiari, certo, ma non solo, perché il legame tra Bruno (poi Alessandro Borghi) e Pietro (poi Luca Marinelli) è di amicizia; un’amicizia soffocata ai suoi albori, ma che riprenderà in seguito la sua forza.

Toccante quando il narratore, che è poi Pietro stesso, dirà che l’amicizia fra lui e Bruno era come se non avesse bisogno di cure, come se esistesse di per sé. E forse questo lo si può attribuire al fatto che si sono conosciuti da bambini, piccoli pre-adolescenti che, per un caso, si trovano a passare l’estate insieme sulle montagne che circondano il lago di Grenon, dalle cui alture si può scorgere una natura incontaminata.

La loro amicizia è fatta di chiacchierate sincere e di alleanze spontanee, i loro passi rivelano una crescita che li accomunerà per sempre.

Giovanni (Filippo Timi) porta sul ghiacciaio suo figlio Pietro e l’amico Bruno

Bruno, che è nato e cresciuto da sempre in quei posti, è un essere completamente immerso nella montagna; ne ha assorbito l’umore chiuso, isolato, burbero, metaforicamente naturale. Pietro, invece, è un figlio della città, si innamora della montagna, del suo imponente respiro, ma sa che non è lì il suo posto.

I due si separeranno, dopo un’estate passata insieme, proprio quando i loro destini avrebbero continuato a poter combaciare: la famiglia di Pietro, a sua volta affezionatasi a Bruno, vorrebbe portarlo con sé in città, a Torino, per consentirgli di finire le scuole. E Bruno è eccitato, contento di farlo; nonostante si senta un elemento della montagna, sente necessario il distacco. Sarà solo il padre, muratore sempre in giro a lavorare, ad impedirgli di realizzare il suo progetto di emancipazione e ad imporgli di andare a lavorare con lui.

Così, per anni, i due non si vedranno; Pietro conserverà un ricordo limpido e nostalgico di quella amicizia, e quando anni dopo, da adolescenti cresciuti, i due si rincontreranno, Pietro non riuscirà a riconoscere Bruno nelle sue fattezze da adulto, nei suoi calli e muscoli prodotti dal lavoro manuale che ormai è tenuto a fare per condurre la sua vita.

Emerge – e forse è uno dei punti salienti del film – una figura paterna (quella di Bruno) respingente e ostacolante, e una figura paterna (quella invece di Pietro) che stimola il proprio figlio a superare i suoi limiti. Ma, sarà per l’effetto di naturale e fisiologica ribellione di un figlio contro il padre, Pietro gli inveisce contro, dice “di non voler diventare come lui”, si oppone alle gite che egli gli propone, lasciando il padre nell’amarezza di non sapere cosa stia sbagliando.

Perché Pietro gli si oppone? Francamente, e considerando come vanno dopo le cose nel film, possiamo pensare che questa sia una domanda spontanea che nasce nello spettatore, che trova in quegli scontri e in quelle incomprensioni null’altro che una ribellione adolescenziale.

Bruno (Alessandro Borghi) e Pietro (Luca Marinelli) si re-incontrano da adulti

Pietro scoprirà una diversa prospettiva con cui leggere la sua vita e i suoi legami quando, ormai trentenne, in città a lavorare come cameriere nelle osterie, verrà a sapere che suo padre è morto. La sua morte sancisce da un lato il suo ritorno in montagna, dai famigliari, e dall’altro sancisce anche il re-incontro con Bruno, che non vedeva ormai da circa quindici anni, ma soprattutto segna una nuova visione del padre. Scopre che, per anni, probabilmente per compensare la sua assenza, ha tracciato cammini sui monti con Pietro, figlio adottivo che a sua volta, non avendo un buon rapporto col proprio, di padre, riversa in quella figura malinconica il suo affetto filiale.

La promessa fatta un tempo da Bruno al padre di Pietro – di costruire, a partire da un rudere, una baita in montagna – sarà l’elemento che farà tornare vicini i due amici. Coinvolto come manovale nell’esperienza di costruzione di quella casa, Pietro si ritrova a pensare che per anni la vita gli è sfuggita, non consentendogli di concentrarsi sulle cose importanti, quali gli affetti, l’amicizia, l’amore.

È un viatico vero e proprio per una nuova vita, la costruzione di quella casa; tant’è che Pietro, quando sarà finita, oltre alla gioia di aver portato a termine un progetto, avrà la forza di dirsi di voler partire da solo per il Nepal, alla riscoperta di sé stesso, mentre Bruno, che ha ormai conosciuto un’amica di Pietro, metterà su famiglia con lei e inizierà a produrre formaggio per conto di privati.

Pietro e Bruno costruiscono insieme la baita promessa

La separazione

Pietro in Nepal ha conosciuto una donna, una maestra di scuola, che gli ricorda la madre e gli rimanda tutta l’energia che stava cercando. Riesce a pubblicare quel libro che aveva sempre sognato di scrivere, non sentendosi all’altezza di farlo. Si crea una sua vita lì. Ma quando saprà delle difficoltà del suo amico Bruno nel portare avanti l’attività che ha creato, e nel tenere insieme la sua famiglia (ormai ha una figlia), ritornerà in montagna da lui.

È forse un incontro che inizia a far male nel momento in cui si presenta, perché è chiaro sin da subito che Pietro e Bruno sono due uomini totalmente diversi, spinti, per circostanze ed educazione, a condurre due vite sostanzialmente dissimili. Eppure resta che l’uno nell’altro ritrovano quello che altrove è impossibile persino ricercare: una comprensione muta e sincera, che non necessita nemmeno di parole.

E l’esito di questa storia, il finale, quello per cui Bruno vorrà essere lasciato sulla sua baita di montagna immersa nella neve invernale, una montagna che, dice, “non può farmi male”, sancisce forse la separazione più forte che Pietro dovrà vivere nella sua vita. Dopo una valanga, la baita in cui alloggiava Bruno verrà sommersa dalla nave, che ricopre in questo modo anche il suo corpo ormai seppellito.

Pietro, in uno dei suoi ultimi dialoghi con Bruno, racconta la storia secondo cui, per il popolo nepalese, il mondo è una sfera, in cui vi sono otto montagne e otto mari. Posta al centro del mondo, c’è poi la montagna più alta. Alcune persone sono fatte per transitare da una delle otto montagne all’altra, altre per salire sulla montagna centrale, più alta, e lì fermarsi.

È una metafora dei due diversi modi dei due amici di stare al mondo: Bruno è legato in modo viscerale alla sua montagna e non si muoverà mai di lì. Pietro, invece, è da sempre spinto a stare in movimento per cercare il suo posto nel mondo, il suo centro “di gravità permanente”. Se per Bruno tutto è immediato, se il suo mondo è fatto di pochi elementi essenziali, dall’altro lato per Pietro la vita appare più complessa, sede di infinite domande a cui cercare di dare continuamente una risposta. Si forma così la coppia fatta da due poli opposti e complementari e un’amicizia che sfida il tempo e la logica perché a tenerla salda è il cemento duro di una stessa sorta di inquietudine.

Alessandro Borghi e Luca Marinelli, amici anche fuori dal set

Il film vive proprio di questa compensazione tra i due protagonisti, come due vasi comunicanti sembrano passarsi (senza veramente riuscirci) i loro diversi modi di interpretare la realtà che li circonda. La loro fratellanza è ciò che consente ai silenzi di Pietro di fare da contrappunto alla tellurica personalità di Bruno.

Entrambi gli attori hanno svolto il loro ruolo in maniera eccellente, riuscendo a donare allo spettatore un grande lavoro di trasformazione attoriale (si pensi al dialetto della montagna appreso da Borghi) e una grande capacità di aderenza ai loro personaggi; il loro legame appare sincero, coinvolgente, emotivamente provante.

Così Le otto montagne diventa un modo di raccontare un posto – una montagna incontaminata i cui caratteri sono rimandati benissimo sia dalle splendide ambientazioni valdostane sia dalle ottime riprese della coppia di registi – e un modo di viverci, di vedere la vita da lissù. Certo si rappresenta la fatica, l’isolamento, la solitudine, lo sforzo di vivere in certe condizioni, tentando di superare dei limiti e dei confini che ci si impone da soli, ma anche si rappresenta la compagnia, l’alleanza e un confronto con quella vita frenetica che in città non sempre permette di fare esperienza della calma e della pacatezza (ma persino della ferocia) della natura.

Un film, insomma, che pensiamo abbia meritato tutti i premi attribuitigli.

«(…) perché in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, così come all’inizio della propria storia. Non resta che vagare per le otto montagne per chi, come me, sulla prima e più alta, ha perso un amico».

(Pietro, voce narrante, alla fine del film)

Leggi anche :Non essere cattivo – Il cinema italiano racconta spaccati di vita

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