I Am Not Your Negro: James Baldwin sanguina ancora

Davide Ceccato

Dicembre 22, 2021

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I Am Not Your Negro (2017) sono le prime e ultime pagine di ciò che doveva essere un libro di James Baldwin, scrittore americano. Il libro doveva raccontare, attraverso tre personaggi di spicco della lotta per i diritti degli afromericani – Medgar Evers, Marthin Luther King e Malcolm X -, la storia di una nazione.

Il regista del documentario Raoul Peck è già noto per aver affrontato dall’interno (politica e società) la storia africana, essendo lui molto legato al continente, con opere come Lumumba o Accadde in aprile. Con questo documentario si avvicina più forte alla critica sociale alla Spike Lee o alla Melvin Van Peebles trapiantati negli Stati Uniti.

Attraverso l’uso di foto e video di repertorio sviscera il problema del razzismo dagli anni novanta sfumando fino al presente, lasciando però in risalto il concetto che non esistono passato, presente e futuro nel razzismo, ma solo il presente e ciò che deve essere fatto per combatterlo.

Raoul Peck nel film ricorda molto l’artista audiovisivo contemporaneo Arthur Jafa, che analogamente, attraverso un uso massiccio di piccoli video, racconta l’odissea afroamericana nella più grande Democrazia del mondo.

Arthur Jafa: «Love is the message, the message is love».

«The story of the negro in America is the story of America».

(James Baldwin)

Stati Uniti. Questa nazione così complessa che nasconde il fuoco dietro il suo sipario. Il problema del razzismo negli Stati Uniti ha occupato un posto cruciale nella loro storia e crescita come paese. Dalla schiavitù fino ai giorni nostri gli USA hanno dovuto fare i conti con i loro vuoti in una società che i vuoti non li voleva vedere.

James Baldwin è stato un lucido e brillante portavoce di ciò che semplicemente vedeva intorno a sé in quella società così malata e rancorosa. Non ha voluto planare dall’alto sul problema, ma ha voluto azzannarlo e spogliarlo, usando non il manganello e non i pugni, ma un’arma ancora più potente: l’inchiostro.

Come l’importante attivista afroamericano Gil Scott-Heron ha fatto con il canto, Baldwin ha usato l’inchiostro per psicanalizzare cosa veramente si nascondeva e si nasconde dietro all’odio verso il diverso. Gil Scott-Heron è stato un attivista afroamericano che attraverso l’uso della Spoken Word ha cantato e poetato la realtà che lo circondava, proprio come James Baldwin, ma con l’uso degli strumenti.

L’arte che si sostituisce all’intellettuale, che attraverso se stessa ti punta il dito, lo punta a tutti, urla e si emoziona usando noi come strumenti. Perché solo grazie alla profondità si scopre la radice della realtà.

Gil Scott-Heron: Winter in America

Il documentario I Am Not Your Negro è il ritratto di un’America nel pieno della lotta di razza. Sono gli anni degli autobus e delle scuole per soli bianchi, dei cartelli e degli sputi contro gli afroamericani.

Corrono tempi violenti, nefandezze da parte della polizia e fioriscono i primi attivisti. Spiccano figure come Megar Evers, Marthin Luther King e Malcolm X che James Baldwin mette su due piani diversi, come due diverse visioni di “resistenza”.

I Am Not Your Negro
Manifestani contro l’integrazione

Marthin Luther King era per la non-violenza, per porgere l’altra guancia, per non rispondere con la stessa aggressività. Mentre Malcolm X considerava Marthin Luther King un buono, uno che si faceva sottomettere e che non vedeva bianchi e neri, ma tutti fratelli. Le idee però, come dice Baldwin, dei due leader finiranno per avvicinarsi fino a unirsi del tutto.

King, X ed Evers verranno assassinati e Baldwin lo ricorda con dolore. Erano personaggi scomodi?

Il nostro scrittore però, attraverso conferenze, libri e interviste è riuscito a brillare particolarmente nel mettere in luce come la nazione e prima di tutto i suoi cittadini, nascondano un problema, innanzitutto non con la pelle diversa, ma con loro stessi.

Il razzismo è un problema personale, ci racconta Baldwin, e non dell’altro. È un qualcosa di più profondo e tutto nasce da una tremenda insicurezza della persona in primo piano, un vuoto che non vuole essere scoperto.

Allargando il raggio, si scopre che un certo tipo di meccanismo ha fallito nella crescita psicologica delle persone. In un certo senso, dice Baldwin, l’America ha fallito, attraverso il mito tossico del sogno americano che ha contribuito a creare macchine intrappolate nel mezzo tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere. Questi solchi e precipizi psicologici trascinano verso un’amara solitudine e un blocco vitale ed emozionale che costringe la testa sotto alla sabbia.

Gli Stati Uniti hanno mostrato una faccia diversa da ciò che in realtà nascondono nel ventre, mentre tutta questa finzione non ha fatto altro che creare aspettative tossiche nella popolazione che, divenuta rabbiosa e preoccupata, ha dovuto inventarsi un nemico per riuscire a riempirsi, per compensare, per equilibrarsi.

Perché in I Am Not Your Negro altro non si parla che di invenzione, di una mera invenzione umana, puro capro espiatorio. Il razzismo è una concezione che si autoalimenta attraverso i limiti mentali. La lezione che infine dà il meraviglioso James Balwin è che appunto il razzismo non è un problema del nemico, ma del razzista. Chi odia gli altri odia se stesso.

L’assenza di auto-concezione della realtà porta a una paura della stessa e a una continua voglia che nulla cambi, che tutto debba stare come è, sempre. Il diverso crea scompiglio perché appunto altera la realtà della persona che non comprende, e che quindi odia il diverso e vuole tenerlo il più lontano possibile. Dunque il razzismo si aggrappa alla tetta dell’ignoranza e si soffoca da quanto è assetato.

«Tu non sai nulla di me, ma io so molto di te».

(James Baldwin)

La percezione della realtà, la cultura e la conoscenza di noi stessi sono gli antidoti contro il virus dell’odio verso il diverso.

Bisogna scoprire con i propri occhi quali sono i problemi, gli orrori. Bisogna vedere. Mai far finta di niente e mai tentare di cancellare gli sbagli delle epoche passate perché fanno parte della costruzione di un mondo migliore. Il documentario come formato possiede il pregio di far scorrere le immagini che sono come dei colpi di fucile. I movimenti razzisti con i cartelli con le svastiche, gli studenti afroamericani che vengono derisi, i cadaveri degli attivisti e le violenze della polizia.

Quale miglior modo di capire se non vedendo con i propri occhi? I Am Not Your Negro ritaglia in modo certosino spaccati di storia americana attraverso gli strumenti più devastatanti che esistano: le immagini.

Le parole di James Baldwin risuonano a intermittenza nel documentario attraverso le conferenze e le interviste. Il suo lavoro intellettuale è di creare problemi, porre domande, bucare l’ipocrisia, ribadire tutto ciò che pensa non usando le mani, ma il cervello.

Così feroci e così affascinanti, le parole dello scrittore lette da Samuel L. Jackson donano quasi poesia alla tragedia dell’odio razziale, spigoloso, ma appartenente purtroppo alla brutale vicenda umana.

I Am Not Your Negro recita una lunga poesia viva che attraverso se stessa realizza un imponente quadro di cosa possa essere capace l’essere umano e ciò che deve essere visto. Perché un problema non sparisce solo perché nel mezzo c’è un oceano. Il problema è l’oceano.

James Baldwin al Dick Cavett Show

Serve sapere che il buio della ragione c’è, esiste e serpeggia. Si nasconde nel vento, sotto i tappeti, negli occhi, è silenzioso e esiste. L’omicidio di George Floyd ha dimostrato ancora che purtroppo esiste un problema che deve essere affrontato a partire dal cervello e dall’istruzione delle persone. La storia non è il passato, ma il presente, dice James Baldwin nel finale, e il futuro di questo paese, come del mondo, dipenda da questo.

«Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone (…) Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro».

(Seid Visin, 20enne suicida nel 2021)

Leggi anche: “Do the right thing – Il Razzismo, la grande maschera dell’Odio verso l’altro”

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