Beach Rats – Sotto le luci della ribalta

Caterina Cingolani

Giugno 24, 2022

Resta Aggiornato

Opera seconda della regista newyorkese Eliza Hittman, Beach Rats viene presentato nel 2017 in anteprima al Sundance Film Festival. Una sinestetica poesia in movimento che si aggiudica il premio per la miglior regia.

Inquadrature pittoriche costellate da luci al neon e ambienti bui retroilluminati da bagliori colorati restituiscono il caos glamourizzato di una città disseminata da “persone di plastica”.

Beach Rats è un film fatto di atmosfere suggestive e dalla forte carica drammatica. Ciascun frame è così cinestetico e narrativo da contenere una storia a sé stante.

Frankie vaga per le strade della città senza una meta ben precisa. Le persone cercano il suo sguardo, eppure lui sembra fare di tutto per evitarle. Accanto al nostro protagonista camminano gli altri tre membri del gruppo: Nick, Alexei e Jesse. Uno di loro tiene in mano uno spinello. Dopo un tiro ambizioso e una fugace occhiata d’intesa, lo passa a Frankie. Il ragazzo sorride soddisfatto, raddrizza le spalle e si sistema i capelli. Che lo spettacolo abbia inizio!

Beach Rats

Beach Rats si muove sull’onda di una poetica controversa, i cui centri di rotazione rimangono pur sempre il corpo e la ricerca (in questo caso, della propria identità), temi già esplorati dal cinema underground di registi come Gus Van Sant, Harmony Korine e Larry Clark.

Eliza Hittman costruisce una sorta di ode sinfonica, un collage mutevole di umori e situazioni infinitamente toccanti, proprio perché verosimili. 

Nessuna romanticizzazione, soltanto un libero dispiegarsi degli eventi. Le scelte registiche si tengono lontane dallo stile antinarrativo adottato dai celebrati colleghi, preferendo una struttura da romanzo di formazione

«Affronto una scena di sesso quasi come affronterei una scena di lotta», afferma la Hittman. Non c’è niente di tradizionalmente erotico nei primi piani bui e claustrofobici che caratterizzano gli incontri ravvicinati con uomini molto più grandi di Frankie. Al contrario, queste riprese si configurano più come una sorta di combattimento in gabbia, illuminato da intermittenti luci al neon: dure, fredde e quasi catartiche. 

Frankie (Harris Dickinson), giovane ragazzo triste con gli occhi azzurri, trascorre la sua esistenza tra i sobborghi della Brooklyn low-income. Egli non lavora e non studia, né coltiva alcuna passione. Si limita soltanto a lasciarsi inondare a un flusso indistinto di eventi e situazioni, senza nemmeno capirne o coglierne il valore intrinseco.

Sotto questo punto di vista, il film sembra riallacciarsi a Moonlight, altra coinvolgente storia di formazione gay in cui traspare tutto il dolore e il desiderio repressi per via di una società coercitiva. Vediamo la stessa prigionia identitaria propria di località periferiche, anche per quanto riguarda le scelte di uno stile ipersensuale e di una messa in scena impressionistica.

Star Of Acclaimed Gay Indie "Beach Rats" Talks About Baring His Soul—And  His Body | NewNowNext
Momenti d’intimità

Noia, droghe e solitudine sono le condizioni dell’abominevole eterno ritorno di cui Frankie è sia vittima che carnefice.

Il giovane si ritrova in balia delle onde, ogni tanto le osserva e molto spesso ci si tuffa, sperando che la corrente lo porti alla larga dalla monotonia quotidiana.

Anche la situazione a casa non è delle migliori: il padre del ragazzo giace a letto, succube di un terribile male, pronto a spazzarlo via in un secondo. Ai membri della famiglia non resta altro che prepararsi a dire addio.

Al funerale non ci sono lacrime né compianti, solo un discorso preparato, qualche incitamento della madre ad “aggiungere qualcosa” e una sostanziale apatia da parte di Frankie che afferma: «non so cosa dire».

Eppure, a modo suo è privilegiato: bianco, bello, con una madre premurosa che fa di tutto per mantenerlo, è rispettato dagli amici e corteggiato dalle ragazze. 

La verità è che Frankie è prigioniero di un corpo perfetto e di una mentalità eteronormativa che ricerca le prestazioni piuttosto che le qualità. Potenzialmente potrebbe esplorare tutto ciò che vuole, se solo sapesse cosa…

Frankie si fa degli autoscatti, per lui l’estetica è tutto

Uomo in videochat: «Ti piace quello che vedi?».

Frankie: «Non so cosa mi piaccia davvero».

Il personaggio salta irrazionalmente tra momenti di edonismo spontaneo e autoironia, descrivendo al pubblico la vergogna che prova quando ammette ciò che vuole veramente: «non farmelo dire», implora all’uomo che si sta spogliando per lui sullo schermo.

Rapporti estemporanei, labili ed evanescenti, meri collegamenti transitori che si consumano nella frenesia di una notte passata sul ciglio di una strada poco trafficata.

Lo vediamo sbirciare tra le fessure delle dita: si sente colpevole e colpevolizzato di un piacere che preferirebbe non gli appartenesse.

Frankie, titubante, osserva un ragazzo ballare sensualmente

Nel quartiere operaio di Brooklyn, quello che gli piace non è un’opzione.

Si “fidanza” con Simone, più per fare un piacere alla madre, la quale continua a domandargli chi siano le ragazze che porta a casa ogni sera. Esaudisce anche i desideri sessuali della partner, ma solo dopo essersi masturbato in bagno, ripensando, forse, all’uomo della sera precedente.

La sovrastruttura sociale della città è fin troppo pressante e l’omofobia fin troppo interiorizzata per permettere qualsivoglia grado di normalizzazione trasversale. Non resta altro che autocensurarsi.

Uno tra i primi incontri tra Frankie e un uomo trovato nella chat

Frankie: «Credi sia sexy quando due ragazzi si baciano?».
Simone: «No, non è sexy, è gay. Due donne possono baciarsi ed è figo, due ragazzi che si baciano sono solo gay».

L’affermazione, pronunciata con una leggerezza disarmante, fissa in modo inequivocabile l’orizzonte (morale) all’interno del quale si muove Frankie, maschio alpha di una generazione di giovani sbandati in una nazione che non sa prendersi cura dei propri figli.

I Beach Rats sono costretti a nascondersi…in spiaggia

“Beach Rats” è una parola della terminologia slang, indicante quei giovani ragazzi che frequentano Gerritsen Beach, una zona di Brooklyn abitata soprattutto da comunità di origine irlandese, quindi cattoliche. Si tratta di individui nullafacenti, che impiegano il loro tempo a bighellonare in spiaggia, fumando e bevendo alcol. Una sorta di contemporanei vitelloni felliniani.

I Ratti “si esibiscono” sulle scalinate che portano alla spiaggia

Lo spettatore, inoltre, è costantemente riportato alla visione dei fuochi d’artificio, la cui simbologia sembra riflettere a pieno le emozioni e il comportamento di Frankie.

Essi sono pericolosi, proprio come la tossicità latente del suo gruppo di amici e la sua dipendenza da alcol e droghe. La polvere da sparo esplode, le particelle “vanno a sbattere”, proprio come fa Frankie quasi tutte le sere. I fuochi d’artificio sono rumorosi e vistosi, come il suo rapporto con Simone.

Ma forse l’importanza dei fuochi d’artificio è la velocità con cui si esauriscono: quando questi svaniscono nel nulla, le persone se ne vanno e nessuno si ferma a guardare il fumo che si mimetizza sullo sfondo. 

Questa metafora racchiude perfettamente l’essenza di tutti i suoi incontri: una breve e intensa scintilla, poi nient’altro, solo una fantasmatica scia di nebbia. I fuochi d’artificio sono sempre gli stessi a Coney Island e se Frankie non fa qualcosa per cambiare, sarà per sempre costretto alla visione dello stesso, morboso, spettacolo.

beach rats
I fuochi d’artificio

La civiltà del tabù antropologico – Beach Rats e il desiderio come forma di rappresentazione

Tabù è una parola polinesiana che in ebraico significa “separato”. Questo termine esprime una condizione di separazione tra ciò che è divino, onnipotente e puro e ciò che è profano, proibito e impuro. Dalla trasgressione del tabù sacro derivano terribili punizioni, attivate dal Totem stesso (animale o forza naturale che rappresenta, protegge ed è progenitore del clan che lo adotta).

La prospettiva di un “mondo nuovo” simile a quello immaginato da Aldous Huxley, privo di anatemi, perché ammaestrato dall’assenza di passioni, è inconcepibile psicologicamente. Il tabù non è un equivoco antropologico, ma delimita l’identità stessa di una cultura.

Il tabù è un fenomeno sociale, così come la repressione è un fenomeno storico.

Ne Il disagio della civiltà Freud attribuisce al senso di colpa (non solo quello legato alla violazione del tabù sacro) una funzione decisiva nel progresso della civiltà. All’aumentare dell’uno, l’altro replica di conseguenza.

Sulla base della rinuncia, la civiltà ha, quindi, bisogno di sublimare certi istinti e di poterli desessualizzare. Tutto ciò per sostentare la sua sopravvivenza ed evoluzione, ma a un caro prezzo: la felicità.

Nel territorio mentale del protagonista, il confine che scinde ciò che viene reputato consono (la Verità collettiva) o incongruente (il Segreto, il tabù di essere omosessuale), si estingue nel passaggio tra il latente e il manifesto e si insidia nell’arcano sottotesto che divide il palcoscenico pubblico e il “dietro le quinte” della sfera privata.

Erving Goffman, sociologo americano, afferma che la realtà non è altro che una rappresentazione drammaturgica dove l’uomo, effimera marionetta comandata dalle proprie emozioni, tenta di creare una verità condivisa, inscenando una sorta di spettacolo aperto al pubblico.

Ognuno si dice attore di se stesso, o di quello che pensa di essere, in accordo con il prossimo: gettare la maschera significherebbe far crollare il rituale, smascherare il Segreto.

Ne scaturisce, così, un doppio strato di recitazione, una sorta di film-dentro-il-film.

Il primo strato si colloca all’interno dello spazio filmico, quello in cui si muove il protagonista, in cui finge di essere etero. Il secondo è dedicato allo schermo, a noi spettatori. Nessuno oltre a noi sa del Segreto in questione, siamo riflesso diretto del suo inconscio.

Frankie non è altro che il personaggio di se stesso.

beach rats
La dualità di Frankie

Beach Rats è la storia di un risveglio sessuale complicato e autodistruttivo, decisamente fuori dai confini del cinema queer di formazione.

La vergogna di Frankie è qualcosa che, tristemente, risuona bene a molte persone, sentimento forse radicato nella convinzione che i nostri desideri siano immorali, perversi e debbano essere tenuti segreti a tutti i costi. Per non parlare della scena di violenza finale…

Eliza Hittman racconta uno spaccato di realtà, un viaggio voyeuristico fatto di dettagli e di non detti, di frammenti da ricostruire (da notare bene come viene inquadrato il corpo di Frankie nella prima scena del film). Nessun compromesso che permetta di accasciarsi sulla comoda poltrona del perbenismo.

beach rats

Leggi anche: Il Potere del Cane – L’insostenibile peso della mascolinità

Correlati
Share This