La Grande Bellezza – Il vero significato è nella versione integrale

Andrea Vailati

Novembre 28, 2016

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La Grande Bellezza non è un film che vuole porci un significato, poiché non un film che trova certezze nell’esistenza.

Quando parliamo di significato sottointendiamo una risposta a una domanda, un concetto dietro un’affermazione, una definizione compiuta insita nell’affermarsi di una questione e, in questo caso, la vita stessa.

A mio avviso La Grande Bellezza si delinea in un tono tutt’altro che definitorio, mostrandoci una vera e propria epochè dell’esistenza, ove epochè si intende come sospensione del giudizio, come ritorno al prima, dove tutti i presupposti e i canoni che oramai diamo per imprescindibili, non fossero ancora stati definiti. Ovviamente, nel ritornare a tale stato consapevolmente, implicitamente a un certo punto metteremo in discussione dove siamo.

Jep Gambardella è proprio questo, un uomo sospeso, un uomo che ha smesso di cercare, un uomo arreso all’evidente degrado del mondo.

Jep Gambardella: «Sono anni che tutti mi chiedono perché non torno a scrivere un nuovo romanzo. Ma guarda ‘sta gente, ‘sta fauna. Questa è la mia vita, non è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente, non c’è riuscito. Ci posso riuscire io?».

Egli ama la mondanità poiché è consapevole del suo fallimento, della sua chimera di vuotezza, egli ama la mondanità perché ne comprende il senso, cioè che il mondo non cerca più significati e questo gli permette di dominarla, di “far fallire le feste”.

La Grande Bellezza
Toni Servillo in “La Grande Bellezza”

È il mondo dell’altissima borghesia quella che ci mostra Sorrentino, sempre più affermatasi come casta, sempre più lontana dal senso originario della lotta all’aristocrazia, dove oramai il presupposto di agire nel mondo è superato da un fluttuare nell’eccesso illusorio, padroni di una realtà che non esiste.

Servillo dunque si gongola nella sua certezza del non esserci necessità di cambiare qualcosa, di affrontare se stesso e la propria ipocrisia poiché non c’è più Bellezza da cercare.

Cosa vuol dire Bellezza?

A me sembra che Sorrentino ci dia tante sottili risposte, tutte sospese, sospese in una poesia che il mondo inconsciamente continua ad avere nonostante sia oggi surclassato dall’orrido materialismo sterile, tante risposte senza mostrarci la via illuminata.

In questa versione estesa de La Grande Bellezza (trenta minuti aggiunti alla versione originale) ho trovato un percorso che nella versione da oscar sentivo fosse fin troppo non detto.

Qui ho colto il confluire di plurime esistenze, ognuna posta come diversa chiave di lettura per colui, Jep, che sempre più comprendiamo essere un romantico decaduto.

Già nella versione normale avevamo personaggi simbolici, tra tutti le figure di Sabrina Ferilli e di Carlo Verdone.

Ella, emblema di ignoranza che si fa di ingenuità virtù, consapevole solo di quel mondo fatto d’istinto, mostra con leggiadra forza quella brevità dell’ingenuo curioso sguardo, ancora ammaliato da ciò che fu Bellezza (nei palazzi delle principesse). In questo modo ridà al nostro protagonista quella particella di volontà nel muoversi nel mondo attivamente, ricercando qualcosa e non fluttuando nella disillusione.

Lui, Romano, si fa invece emblema dell’uomo il cui sogno d’amore e poesia è fallito in ogni senso, bloccato come nella sua splendida pièce teatrale tra settembre e agosto, sa che Roma, o meglio il mondo, l’ha deluso, torna al villaggio dove sognava di potere vivere nel semplice, piuttosto che nel fasullo.

Anche qui, per quanto riguarda il personaggio di Verdone, la scena tagliata della non sessualità con la sua amata impoverisce e disillude definitivamente, risveglia il sognatore dal mondo che non gode del suo sognare.

La Grande Bellezza
Giulio Brogi in “La Grande Bellezza”

La versione integrale crea delle ben più nette contrapposizioni e, in un certo senso, ci guida molto di più verso il sussurro di cosa sia La Grande Bellezza.

L’aggiunta della scena dell’intervista al regista (la trovate qui) che scappa dalla realtà grazie al cinema, su tutte si rivela emblematica. In primis per la totale contrapposizione con la “finta artista delle vibrazioni” che Jep condanna mostrando la vacuità della finzione odierna. Il Maestro Cinema, invece, è portatore di quella semplicità concepita nella reale consapevolezza dell’arte. Egli mostra l’autentico istinto primordiale di Jep, e forse anche di Sorrentino, alla poesia della vita, ove il nostro protagonista rimane, forse per la prima volta oltre il finale, stupito, a causa del racconto del primo semaforo a Milano visto come Grande Bellezza, forse ironico, o forse no.

Il Cardinale che correndo nella foresta si perde come la sua fede dimenticata è divenuta status, contrapposto alla santa suora e, ancora di più, a quel Cardinale che fu di otto e mezzo…

Così come nell’incontro con Madame Ardant, nella versione normale solo in un breve sguardo, in questa porta il film per la prima volta a parlare d’amore, quello che nel finale si ritroverà punto di partenza.

Ecco, questa versione mostra il senso paradossale del percorso di riscoperta esistenziale nella sospensione dell’esistenza stessa: non solo nella negatività, per poi ritrovare tutt’ad un tratto l’elemento primordiale, ma svelando estremi della bellezza che fu cercata già nel mentre del percorso, divenendo molto più contrapposto e conflittuale. Come un turista a Roma, Jep é divenuto un turista nella vita, eppure in principio osserva, fermo, ma consapevole e angosciato: perché?

In tanti gli chiedono perché non abbia scritto un altro romanzo dopo quello giovanile “colmo di ferocia”. Prima accusa Roma, poi scherza su Flaubert e il niente, poi dice che ha perso tempo, infine che non ha trovato la Grande Bellezza.

La donna amata in gioventù muore e lui si risveglia, ricorda la voglia di provare emozioni prima ancora che queste si manifestino, ricorda l’irrequietezza del giovane che pretende poesia, che poetizza un bacio, la prima volta in cui conosce l’amore in ogni sua forma. Questa è una delle grandi epifanie non dette, perché questo film non ci dà risposte, forse non ci sono risposte, ma ci mostra la perpetua tendenza dell’ uomo a qualcosa, la facilità in cui oggi ci si ferma, contrapponendole l’incessante necessità che ha l’uomo di trovare Bellezza, di contemplare una vita che ogni giorno vive e muore, potenzialmente essente, contemporaneamente decadente.

La Grande Bellezza
Scena Finale de La Grande Bellezza

La vita non si compie mai, eppure si compie sempre, noi ci rileghiamo a qualcosa, sospendiamo noi stessi accedendo a scenari che sappiamo nel profondo essere illusori, oggi più che mai, ma poi vaghiamo, in un mondo senza tempo, cerchiamo un motivo per vivere e uno per morire, succubi del niente che ci ricopre.

La suora che ha sposato la povertà è lì per ricordarcelo.

Per questo penso che questo film sia potenzialmente tutto, concretamente nulla, per questo lo reputo, soprattutto nella versione originale, una grande opera sul niente.
O, forse, sul qualcosa da ritrovare.

Jep Gambardella [Monologo finale]: «Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla, Bla, Bla, Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco».

 

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