La vera storia dietro il film Memorie di una Geisha

Shosanna

Settembre 5, 2020

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Il Giappone e la cultura orientale sono molto distanti e pieni di mistero, è difficile capire appieno usanze e abitudini di un popolo così diverso dagli occidentali; per questo, spesso, si crea confusione e si rischia di cadere in luoghi comuni sbagliati. È il caso del ruolo della geisha, troppo spesso associato erroneamente al tema della prostituzione, fortunatamente sempre più libri e film stanno aiutando a capire la complessità di questa antica tradizione.

Le geishe, un mondo incompreso

Nel 700 in Giappone si svilupparono delle figure chiamate saburuko, le antenate delle geishe, che avevano il compito di tenere occupati i cortigiani all’interno delle corti. Successivamente scomparvero, sostituite dalle juuyo, delle prostitute di lusso, che intrattenevano solo gli ospiti più illustri.

Non si può giudicare una cultura, non avendo vissuto con lo stesso bagaglio di usi e costumi; il Giappone non possiede un concetto di Dio e spesso l’idea di peccato è diversa da quella occidentale. Pertanto, per quanto si possano non condividere alcune usanze, nessuno può giudicare, la diversità deve essere sempre e solo motivo di crescita.

In Giappone la prostituzione divenne ufficiale nel 1617 e lo è stata fino al 1956, ma ancora oggi i Giapponesi vivono la sessualità in maniera profondamente diversa; basta pensare all’attuale presenza dei love hotels, disponibili per poche ore e nella più assoluta protezione della privacy.

Da questa diversità nasce l’incomprensione della figura della geisha. Ufficialmente le geishe nascono come figure maschili intorno al 1600, successivamente furono sostituite dalle donne, perché considerate più armoniose e, di conseguenza, più adatte per la danza e le arti. Furono varate delle leggi molto rigide, che distinguevano la figura delle geishe da quella delle juuyo. In tutte le città principali nacquero dei quartieri ben distinti dai bordelli chiamati: hanamachi, le “città dei fiori”, in cui sorgevano sia le ochaya, le case da tè, che le okiya, la dimora delle geishe.

Memorie di una geisha

Memorie di una Geisha esce nelle sale nel 2005 con la regia di Rob Marshall, che ricordiamo per I pirati dei caraibi – Oltre i confini del mare, si basa fedelmente sull’omonimo romanzo di Arthur Golden.

Il film è impeccabile, godibile ed emozionante; il cast scelto è eccezionale: Hatsumomo è rappresentata dalla stupenda Gong Li, mentre Mameha è Michelle Khan ed il protagonista maschile un superbo Ken Watanabe, apprezzatissimo già in Inception.

«Una storia come la mia non andrebbe mai raccontata, perché il mio mondo è tanto proibito quanto fragile, senza i suoi misteri non può sopravvivere. Di certo non ero nata per una vita da geisha, come molte cose nella mia strana vita, ci fui trasportata dalla corrente. La prima volta che seppi che mia madre stava male, fu quando mio padre ributtò in mare i pesci, quella sera soffrimmo la fame, “per capire il vuoto”, lui ci disse. Mia madre diceva sempre che mia sorella Satsu era come il legno, radicata al terreno come un albero sakura. Ma a me diceva che ero come l’acqua, l’acqua si scava la strada attraverso la pietra, e quando è intrappolata, l’acqua si crea un nuovo varco».
(Sauri nitta)

Una geisha dagli occhi blu

Chiyo Sakamoto è una bellissima bambina introversa di nove anni dagli occhi straordinariamente blu, una rarità in oriente. La sua famiglia è povera e numerosa, perciò viene venduta a un’okiya. Qui inizia il suo apprendistato da maiko, aspirante geisha, rivelandosi un’eccellente ballerina; purtroppo cattura l’invidia della geisha numero uno della casa, la bellissima Hatsumomo. Grazie all’aiuto Mameha, rivale di Hatsumomo e sua “sorella maggiore”, una sorta di maestra protettrice, riesce a scalare il successo, diventando la geisha più famosa del Giappone.

I personaggi di questa pellicola tutta al femminile sono molto complessi. La dispotica Hatsumomo, così odiosa nei suoi atteggiamenti da arrogante, in realtà è una donna a cui è stata privata la libertà di scegliere chi amare; la stessa Mameha mostra dei sentimenti molto e troppo umani per il suo ruolo sociale: la gelosia per un uomo di cui non può essere l’esclusiva.

Storia proibita di una geisha: una donna forte e libera

Arthur Globe si ispira ad un numero di geishe realmente esistite per scrivere il suo libro, tra le più famose è emerso il nome di Mineko Iwasaky. Mineko nacque a Kyoto nel 1949 e fu la geisha più famosa della sua epoca, tanto che il suo ritiro a soli ventinove anni fece scalpore; durante la sua carriera intrattenne ospiti prestigiosi, come la regina Elisabetta e il Principe Carlo. L’ex geisha acconsentì a fornire indicazioni su un mondo così privato allo scrittore, a patto che egli restasse fedele ai racconti e che non rivelasse mai la sua identità. Golden, romanzò i fatti sul mondo delle geishe, riportandoli in maniera imprecisa e, in numerose interviste, rivelò il suo nome, violando la sua privacy. A quel punto Mineko decise di scrivere nel 2002 un “contro romanzo” Storia proibita di una geisha, in cui prova a spiegare quel mondo proibito.

«Noi non diventiamo geishe per perseguire il nostro destino… noi diventiamo geishe perché non abbiamo scelta.
Ricorda Chiyo, noi geishe non siamo cortigiane, e non siamo mogli. Vendiamo la nostra abilità, non il nostro corpo. Creiamo un altro mondo, segreto… un luogo solo di bellezza. La parola geisha significa artista, ed essere geisha vuol dire essere valutata come un’opera d’arte in movimento».
(Mameha)

Dal romanzo si evince che Chiyo Sakamoto o Sayuri Nitta, il nome acquisito dopo l’adozione ufficiale come erede dell’okiya, è in realtà Masako Tanaka stessa, meglio conosciuta come Mineko Iwasaky, dopo l’adozione.

Sfumature di verità

Di vero c’è il fascino che quel mondo esercita sugli occhi esterni, la dedizione con cui le bambine sono costrette a studiare, seguendo i codici più rigidi ed avendo l’educazione pari a quella di una prima ballerina della scala. Golden e il film descrivono in maniera abbastanza fedele anche i costumi, il trucco e le acconciature delle geishe, nonchè l’importanza dei kimono, valutati al pari di preziosi tesori.

«Gli abiti che usiamo per la nostra professione per noi sono sacri. Rappresentano l’emblema della nostra vocazione. Realizzati con i tessuti più belli e costosi del mondo, i kimono incarnano la bellezza per come noi la concepiamo. Ciascun kimono è un’opera d’arte unica e colei che lo possiede partecipa attivamente alla sua creazione. […] Scegliere un kimono adatto alla situazione in cui verrà indossato è un’arte. Il giusto abbinamento in base alle stagioni è fondamentale. I canoni del gusto tradizionale giapponese dividono l’anno in ventotto stagioni, ciascuna delle quali possiede i propri simboli. I colori e i motivi del kimono e dell’obi dovrebbero rispecchiare la stagione: l’usignolo a fine marzo, per esempio, o il crisantemo nei primi giorni di novembre».

(Mineko Iwasaki)

Quello che Mineko rimprovera a Golden è la distorta visione che egli fornisce delle geishe, soprattutto nei rapporti con l’universo maschile. In particolare nel rito di passaggio da maiko a geisha, il mizuage, NON viene compiuto nessun atto sessuale. Nel mondo delle geishe non è prevista nessuna compra-vendita né della verginità né di rapporti sessuali, cosa molto diversa dal mondo delle juuyo.

Un giardino segreto da rispettare

Le geishe non sono prostitute di alto bordo; sono artiste, ballerine, musiciste, atlete, modelle, lettrici, studiano un’intera vita per essere in grado di intrattenere il pubblico più colto e raffinato. Essere geisha è una vocazione. La stessa Mineko racconta che non poteva avere una vita privata, perché i suoi impegni lavorativi risucchiavano gran parte del suo tempo, come la più moderna donna d’affari. Tutta la vita ha lottato per l’affermazione dei diritti delle donne in Giappone, per non farle restare chiuse in un mondo che andava avanti e le lasciava indietro. A nulla è servito il suo ritiro, come atto di ribellione, se non a far sì che altre settanta geishe, tra le più famose di Gion, uno dei quartieri più antico di geishe di Kyoto, la seguissero.

Non si può non ringraziare Golden, che, sebbene abbia violato il silenzio ed i segreti di una delle arti più antiche del mondo, ha permesso di portare una cultura così preziosa alla luce. Mineko con il suo libro e la sua testimonianza porta il lettore in un mondo proibito, fatto di stoffe lussuose, di acconciature studiate, di gesti ritualizzati, di cerimonie sacralizzate. Tutto nel regno delle geishe è votato ad un’armonica perfezione per donare grazia e leggiadria. Il film Memorie di una geisha, se pur con i suoi errori, ha permesso allo spettatore di compiere un viaggio nei quartieri più antichi d’oriente in una cultura lontana. Per questo un grazie a Golden, a Marshall e soprattutto a Mineko per aver offerto al mondo uno scorcio su un paesaggio così evanescente nel rispetto di una figura così controversa.

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