Lo Zingaro – Il ritmo della follia

Edoardo Wasescha

Settembre 7, 2020

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Tra colpi di danza, valzer di pistole e martellanti canzoni dell’età d’oro della musica leggera italiana, volteggia la follia dello Zingaro, uno dei migliori villain, almeno, dell’ultimo decennio. La scrittura del personaggio è ottima, come quella dell’intero film di Gabriele Mainetti, Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), e l’eccellente interpretazione di Luca Marinelli è talmente sui generis da aver elevato lo Zingaro a icona, complici anche un paio di scene già cult.

Movenze musicali, espressione ammiccante, vestiario anacronistico e una voce ipnotica: se lo Zingaro non fosse un sociopatico, sarebbe un divo della disco music. Ma probabilmente le due cose non si escludono vicendevolmente.

Un personaggio fortemente istrionico, teatrale a tal punto da trasformare la violenza in farsa, sempre con disinvoltura. La scena dove esordisce con un innocuo «buondì», per poi fare una strage sulle note di Ti stringerò (Nada, 1982), ne è la massima espressione. Un brindisi, qualche passo sulle punte, mezzo sorrisetto irriverente, il romantico ballo della morte: le scene migliori sono sempre quelle girate con pochi ingredienti.

Il sintomo più distinguibile del disturbo istrionico di personalità è la continua ricerca di attenzioni. Impossibile, dunque, non riconoscerlo nei tratti della personalità dello Zingaro, incatenato dalla necessità di imporsi, sia nel microcosmo della propria banda che nel macrocosmo della criminalità romana. Affamato di un prestigio che non riesce a mantenere solido, per cibarsene, deciderà allora di far divorare dai propri mastini chi, quel prestigio, ha tentato di sottrarglielo.

L’egocentrismo patologico e l’inabilità a provare emozioni come la compassione o la pietà denotano invece chiari sintomi del disturbo narcisistico di personalità. Lo Zingaro è incapace di instaurare legami empatici con altre persone, persino con chi conosce da sempre.

A completare il ricco quadro clinico, compaiono tratti che ricordano il disturbo borderline di personalità. Tipico di chi ne soffre è la visione del mondo bicromatica: esistono solamente il bianco e il nero; se non è un colore, allora è l’altro, e viceversa. Così, allo stesso modo, chi non è con te, è contro di te: non esistono sfumature né categorie extra a quelle che si è in grado di osservare con gli occhiali del disturbo.

Difficilmente si riesce a non trattenere lo sguardo su quegli occhi incavati da una stancante dissennatezza: lo Zingaro se ne accorge, lo percepisce, ne trae godimento, e flirta costantemente con l’attenzione dello spettatore.

Non serve un occhio troppo attento per scorgere l’influenza di uno dei personaggi più inflazionati di sempre: Joker. Lo stesso Marinelli dice, in un’intervista, di essersi ispirato, fra gli altri, al Buffalo Bill de Il Silenzio degli innocenti (1991) e al modello Joker. In effetti, considerando caratterizzazione e interpretazione del personaggio, quella dell’attore romano sembra, ovviamente con le dovute proporzioni, una versione intermedia tra quella di Jack Nicholson e di Heath Ledger. Grottesco e teatrale come il primo; tetro e caotico come il secondo.

In particolare, la scena dell’iPhone bianco ha più di un’affinità con quella in cui Joker fa sparire, con un gran numero di magia, la matita dentro l’occhio di un criminale ne Il Cavaliere Oscuro (2008). Entrambe le scene denotano una grande dimestichezza dei personaggi con una violenza istintiva, quasi come se questa non venisse filtrata dal raziocinio. Un tipo di violenza aderente unicamente alla legge dell’entropia: tutto si disperde caoticamente, persino il male.

Tuttavia, occorre ribadire che non c’è l’intenzione, da parte di chi scrive, di strutturare paragoni azzardati tanto quanto sarebbe ingiusto ridurre il personaggio dello Zingaro a influenze che ne hanno determinato solo alcuni tratti di affinità. In tal senso, bellissima la metafora di Marinelli nella stessa intervista, dove spiega come il suo sia stato un bagno nel mare dei riferimenti che ha avuto sin da piccolo. Ma poi ci si asciuga e si cerca di creare qualcosa che possa arricchire quel mare: questo è il senso ultimo di ogni interpretazione – o quantomeno dovrebbe esserlo.

Invero, lo Zingaro è, sotto vari aspetti, certamente qualcosa di nuovo, sia nel panorama nazionale che in quello internazionale.

Movenze musicali, espressione ammiccante, vestiario anacronistico e una voce ipnotica: se lo Zingaro non fosse un sociopatico, sarebbe un divo della disco.

Uno dei tratti distintivi del personaggio di Marinelli è il ritmo della follia. Se da una parte sembra uno di quei motivetti che ti entrano in testa, come le canzoni che lo accompagnano, dall’altra si regge totalmente su note che creano una continua dissonanza nel quadro musicale delle azioni che scandisce. Tolta la patina dalla presunta linearità del leitmotiv, rimane solo una profonda disarmonia in cui lo spettatore ha la sensazione di cadere: la follia dello Zingaro è vertiginosa.

Si viene totalmente privati del collegamento tra ciò che accade e la risposta emotiva dello Zingaro a ciò che accade. Sbagliare il colore del nuovo iPhone può determinare retroattivamente la condanna a morte di chi, poco prima, aveva osato mettere in discussione la sua autorità, così come il pensiero della morte, per lui che da sempre sembra esservi in confidenza, può farlo piangere come un bambino.

Oltre all’aspetto psicologico, da non sottovalutare è la componente rétro. Se l’ontologia del villain è certamente specchio della contemporaneità, l’estetica – abbigliamento, gestualità, appeal – è invece in ritardo di quarant’anni sulla vicenda. Questa asimmetria d’epoca contribuisce in modo rilevante a marcare l’originalità del personaggio e, di conseguenza, ad accrescerne il fascino.

In tal senso, la scena che riesce più efficacemente a catturare la stonatura temporale è quella dove lo Zingaro, in un locale notturno, intona Un’emozione da poco (Anna Oxa, 1978) di fronte ai nuovi soci: forse la scena più iconica dell’intera pellicola. Il tempo del pezzo si scontra con il tempo dei loschi affari: l’effetto vintage è il filtro usato dallo Zingaro per muoversi in un mondo criminale che non fa sconti a nessuno, nemmeno a lui.

«La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa», diceva Marx. Lo Zingaro deve presentare la storia della propria individualità come farsa proprio per evitare di aprire gli occhi sulla tragedia della propria esistenza.

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