La poetica di Massimo Troisi

Alessandro Fazio

Maggio 21, 2023

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«Carissimo don Pablo, è Mario. Spero che non vi siete scordato di me. Vi ricordate che voi una volta mi avete chiesto di raccontare una cosa bella della mia terra ai vostri amici, che a me non mi veniva niente? Eh, adesso lo so…» (l’ultimo saluto di Mario – Massimo Troisi – a Pablo Neruda ne Il postino).

Massimo Troisi appartiene a quella speciale categoria di persone capace di entrare nella vita e nelle case degli spettatori senza che questi ultimi lo abbiano mai incontrato. Un attore, un artista in grado di squarciare il cuore di chi riesca e voglia entrare nelle dinamiche della sua poetica, e potrebbe dirsi che il cuore sia la parola chiave di tutta la vita di Massimo, la vera croce e delizia fisica e metaforica che tanto gli ha permesso di dare e tutto gli ha tolto. 

In questa riflessione proveremo a soffermarci sui cinque film da lui scritti, diretti ed interpretati che più di ogni altra produzione artistica rappresentano le intenzioni della sua poetica, senza tralasciare, però, le intersezioni con altre arti, e in particolare con la musica e con il grande Pino Daniele.

Ci sono più ragioni per le quali Massimo Troisi fu soprannominato dalla critica come il comico dei sentimenti. La sua origine, nel teatro e nel cabaret napoletano, è indubitabilmente in Pulcinella.

Attenzione però: Troisi rivoluziona e aggiorna la figura di Pulcinella, togliendogli la maschera. Dirà in un’intervista: «Era il momento del teatro alternativo d’avanguardia e tutti volevano usare Pulcinella. Rivalutarlo. C’era Pulcinella-operaio, e cose del genere. A me questa figura pareva proprio stanca. Pensavo che bisognasse essere napoletano, ma senza maschera, mantenere la forza di Pulcinella: l’imbarazzo, la timidezza, il non sapere mai da che porta entrare e le sue frasi candide».

massimo troisi
Ricomincio da tre (1981)

In Ricomincio da tre (1981), esordio cinematografico dell’artista di San Giorgio a Cremano, c’è un vero e proprio trionfo di questo imbarazzo, timidezza e, in una parola, tenerezza. La leggerezza del primo film di Troisi è in realtà un velo che nasconde critiche pungenti alla società italiana dell’epoca, sopratutto attraverso l’ironia nei confronti dei cliché sui meridionali. Ma perché mai, si chiede Gaetano, il protagonista del film, se un meridionale è lontano dalla propria terra vuol dire che sta emigrando? Un meridionale non può solo viaggiare? Come detto, tuttavia, sono i sentimenti al centro della poetica di Massimo Troisi e il sentimento principale è senza dubbio l’amore. L’amore è raccontato da Troisi, nel suo primo film, come l’ingenuo incontro tra due anime consapevoli solo di cosa vogliono, ma non di cosa sono. L’approccio del regista è, a suo modo, leggero: come Gaetano sfiora appena la pelle della donna protagonista Marta, alla stessa maniera prova a raccontare agli spettatori un sentimento sfiorato, toccato delicatamente e lo fa con successo, strappando più di una risata in scene diventate cult del cinema italiano. 

Un discorso analogo può farsi per la seconda pellicola, Scusate il ritardo (1983). Tuttavia, è interessante notare che in entrambe le prime due produzioni un grande tema sia quello del giovane indeciso sul suo futuro, ancora dai genitori, che incontra donne sue coetanee ma più mature di lui. L’effetto comico è assicurato, eppure non manca quel sopracitato lato di critica sociale, che potrebbe passare in secondo piano ma in realtà è il motore che aziona entrambe le storie. Gaetano va a Firenze proprio per staccare il cordone ombelicale dalla propria famiglia a Napoli, Vincenzo in Scusate il ritardo non lascia la casa fisicamente ma tenta pigramente di farlo almeno con la testa. La sua nuova casa può essere Anna, ma il lassismo del ragazzo non depone a suo favore e il finale del film è volutamente aperto, ma si coglie un barlume di speranza. 

Non ci resta che piangere (1984), scritto, diretto e interpretato con Roberto Benigni, si pone in realtà quasi in autonomia rispetto al resto della cinematografia, una pellicola sui generis che è diventata cult più per alcune scene specifiche che per il film nel suo complesso. Non a caso ampia critica lo ha ricondotto al teatro alla segmentazione tipica dell’improvvisazione, e in questa sede può essere utile sottolineare che Troisi interpreta ancora un personaggio timido e inconsapevole, quasi spaventato, non solo dal viaggiare nel tempo ma soprattutto dalla vita. 

Scusate il ritardo (1983)

Massimo Troisi, si potrebbe dire, fa della leggerezza il suo marchio artistico per le prime tre pellicole fino al 1984. Un uomo, un regista che è sempre stato giovane non può diventare vecchio, quindi la sua evoluzione è più che altro inquadrabile in una profonda, accelerata maturazione artistica. Questa volontà di iniziare a scavare di più nelle stesse cose di cui aveva già diversamente parlato, nonché di indagare lati dell’essere umano non ancora toccati, ha inizio con Le vie del Signore sono finite (1987), prosegue con Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991) e ha la sua (obbligata) fine con Il postino (1994).

Nel film del 1987, ambientato durante il fascismo, Massimo Troisi decide di parlare di molte tematiche più delicate: la disabilità fisica, la libertà, l’amicizia e la malattia. Inizia ad aleggiare, infatti, anche nei suoi protagonisti un velato cenno a quelle che erano le problematiche del Troisi essere umano, gravemente malato di cuore fin da bambino. Se il tema politico viene canzonato più che affrontato, quello delle conseguenze di regimi come il fascismo (quali, su tutte, la perdita della libertà) è il cuore della pellicola che però non rinuncia a trovare nell’amore, ancora una volta, non solo il presupposto, ma soprattutto il fine dell’arco del protagonista Camillo. Egli, infatti, arriverà fino a Parigi per rincontrare Vittoria e lo farà proprio grazie all’amico Orlando, anche lui innamorato della ragazza ma non disposto per questo a tradire la sua amicizia con Camillo. Una battuta, però, ben racchiude la satira di Troisi e il senso di sconfitta che pervade tutti i suoi personaggi:

«Io ho inventato una medicina contro la caduta dei capelli e contro il dolore in un Paese dove uno senza capelli dice che la via della salvezza è il dolore…vedi la fortuna mia».

massimo troisi
Le vie del Signore sono finite (1987)

Il 1991 è un anno fondamentale per Massimo Troisi e per l’incontro tra l’arte del cinema e quella della musica.

Esce al cinema Pensavo fosse amore…invece era un calesse, la cui colonna sonora – composta da Pino Daniele – contiene il capolavoro Quando, alla cui scrittura Troisi stesso ha parzialmente collaborato (i due erano molto amici nonché tragicamente uniti da uno stesso destino di malattia al cuore). Ma non è tutto: Daniele e Troisi nel 1991 scrivono ‘o ssaje comme fa ‘o coreuna canzone tristemente simbolica e drammaticamente retorica nel suo essere interrogativa, che parla di un cuore dolorante a causa dell’amore.

«Ma je nun m’arrenn’ ce voglio pruva’, je no, je no
‘O ssaje comme fa ‘o core, je no, je no
Quann s’è sbagliato
Quann s’è sbagliato».

Il film del 1991 tocca vette altissime. Troisi decide di raccontare l’amore che finisce, l’amore che smette di funzionare, un amore inedito nella sua filmografia. E lo fa a modo suo. Pensavo fosse amore…invece era un calesse è un film che colpisce dentro e si limita a farti sorridere: non si ride più come nei primi film, c’è qualcosa che aleggia e quel qualcosa è una maggiore consapevolezza. A mio parere questo film è il film in cui la narrazione e la poetica di Troisi diventano meta-narrazione, meta-poetica: la maggiore maturità del regista si riflette in una maggiore sicurezza del protagonista, che rimane goffo e a tratti timido, ma è forte di questi tratti e non ne è più vittima. Dice Troisi in riferimento al film:

«Perché calesse?… per spiegare al meglio la delusione di un qualcosa le cui aspettative non sono state mantenute, poteva essere usato un qualsiasi altro oggetto, una sedia o un tavolo, che si contrappone come oggetto materiale all’amore spirituale che non c’è più. Mi piaceva e poi si possono trovare tante cose con il calesse: si va piano, si va in uno, si va in due, ci sta pure il cavallo… Quando non è più amore ma «calesse», bisogna avere il coraggio della fine, piano piano, con dolcezza, senza fare male… ci vuole lo stesso impegno e la stessa intensità dell’inizio».

Pensavo fosse amore…invece era un calesse (1991)

Un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi tra di loro: troppo diversi. Così conclude il protagonista Tommaso, reduce dalla scelta di non presentarsi al suo stesso matrimonio. Il coraggio della fine è una scelta di cuore esattamente come è una scelta di mente: è la dolcezza nel fare tale scelta che contraddistingue il momento in cui si passa dall’amore al calesse. 

La meta-narrazione diventa lampante, angosciante, squarciante nell’ultimo film di Massimo Troisi (diretto con Michael Radford): Il postino. Questa pellicola è tante cose: è l’ultimo tassello di una poetica incompiuta; è il testamento di un regista che tanto aveva detto e che moltissimo avrebbe potuto ancora dire; è, infine, la maturazione di ogni tematica raccontata da Troisi fin da Ricomincio da tre. Mario è un isolano che non vuole fare il pescatore: ritorna il tema della necessità di distacco dal nido familiare; Mario è un ignorante che vuole fare il poeta: ma il punto, gli rammenta Pablo Neruda, è che uno non può fare il poeta, uno semmai deve essere poeta. L’arte, quando spiegata, diventa banale:

«Molto meglio dire male qualcosa di cui si è convinti che essere poeta e dire bene quello che vogliono farci dire gli altri». 

Il personaggio di Neruda, vero cuore pulsante della storia insieme al protagonista, probabilmente racchiude nella frase precedente e in quella qui riportata di seguito la ragione per cui forse nessuno meglio di Troisi ha parlato coi sentimenti direttamente con la lingua del cuore:

«Meglio delle spiegazioni è l’esperienza diretta delle emozioni che può spiegare la poesia ad un animo disposto a comprenderla».

Il postino ha, tuttavia, una fine tragica per molteplici ragioni. Mario riesce a essere un poeta, compone una poesia che vuole leggere in una manifestazione comunista ma rimane ucciso in un pestaggio da parte della polizia, e il foglio che la contiene vola senza meta e soprattutto senza destinatari. La sconfitta dell’arte contro la violenza e la morte. L’aria di morte che pervade il finale del film, però, non può non far pensare a cosa accadde quel 4 giugno 1994, esattamente un giorno dopo la fine delle riprese. Massimo Troisi decede per un attacco cardiaco conseguente all’ennesima febbre reumatica di cui soffriva da bambino, e lo fa poco prima dell’intervento di trapianto di cuore che aveva prenotato negli Stati Uniti: l’intervento era stato rinviato proprio per completare il film.

Troisi ha scelto l’arte e ha trovato la morte. Ma è nella scelta che trionfa la vita. Quello che ha lasciato l’artista napoletano ha un valore inestimabile: la dolcezza, la tenerezza, la delicatezza, l’ironia, la leggerezza e la profondità con cui ha parlato a tutti dei grandi temi della vita sono uniche.

massimo troisi
Il Postino (1994)

L’Italia esce artisticamente impoverita da quel 4 giugno 1994, l’Italia perde un figlio che ha parlato col cuore del cuore, e per farlo ha usato una mente raffinata: ‘o ssaje comme fa ‘o core? La solitudine di chi muore a 41 anni è quella di chi sapeva come parlare e arrivare a chiunque lo ascoltasse, dall’analfabeta all’intellettuale. È la solitudine di chi, malato di cuore, non può giocare con la stessa avventatezza degli altri, ma non per questo non sa arrivare dove il suo cuore fisicamente gli impediva e ha impedito. È la parabola di un artista che, alla fine, sapeva veramente che cosa significasse raccontare “una cosa bella”, anche rischiando la vita. Grazie, Massimo.

«E l’anima d’improvviso prese il voloMa non mi sento di sognare con loroNo, non mi riesce di sognare con loro».

Fabrizio de André, Un malato di cuore nell’album Non all’amore, non al denaro né al cielo (1971).

Leggi anche: Il postino, Neruda e Pino Daniele

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