Barbie – L’empowerment che non ti aspetti

Alessandro Fazio

Agosto 22, 2023

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«I’m just Ken»
(Ken, interpretato da Ryan Gosling, in Barbie)

Barbie di Greta Gerwig è senza dubbio il fenomeno cinematografico del momento.
L’accurato mix tra potente vivacità visivo-sonora e profondità narrativa creano un prodotto valido, ma soprattutto efficace, che è probabilmente destinato a fungere da caposaldo di quella cultura pregnante di nuova consapevolezza che sta iniziando (finalmente) a caratterizzare la nostra società.
Se però è chiaro che l’intento di base è dare voce alle donne, al ruolo della bambola Barbie nel mondo reale e soprattutto a evidenziare le croniche criticità del patriarcato in cui si vive da secoli – intento già di per sé nobile e affascinante -, la pellicola diventa ancora più interessante quando sfrutta inaspettati mezzi per veicolare il suo messaggio di empowerment, in un tentativo di distaccarsi dall’apparente estremismo di alcune idee che hanno comunque voce nel film.

Si parta da un presupposto imprescindibile: spesso le apparenze ingannano. La Gerwig gioca molto sulla satira sugli estremismi, rappresentando Barbieland come una società assolutamente matriarcale e il mondo reale come una società esclusivamente patriarcale: entrambe, infatti, sono rappresentazioni esagerate, degenerazioni della realtà. Barbieland non è in realtà perfetto con solo le donne al comando (come il finale dimostra), mentre il mondo reale è al più prevalentemente patriarcale (purtroppo), ma ciò non vuol dire che tutti gli uomini pratichino catcalling o discriminino lavorativamente le donne come mostrato nel film.

barbie

Estremizzazione e polarizzazione, dunque. Ma cosa c’è dietro e perché si è parlato di apparenze?

Barbie dimostra in più punti di non essere un film banale (forse a tratti un po’ retorico, ma mai banale) pertanto non può non cogliersi un sottotesto: attribuire (apparentemente) più diritti a una categoria di soggetti non sempre significa discriminare quella che non beneficia di questa attribuzione.

Più specificatamente, se le donne si sono sempre trovate in un sistema che impone pratiche di soggezione e subordinazione nei confronti degli uomini, è evidente che per bilanciare questo squilibrio serve che ad esse vengano attribuite più agevolazioni, più diritti in senso lato, altrimenti la bilancia non sarà mai equilibrata. Si pensi alle cosiddette “quote rosa“: a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che si tratti di una discriminazione verso gli uomini stabilire che una percentuale del parlamento debba obbligatoriamente essere formata da donne. Ma non è così: il legislatore è intervenuto in questo senso perché, altrimenti, senza questo incentivo l’uguaglianza non sarebbe mai raggiunta, gli uomini sarebbero, spesso in via prevaricatrice, la maggioranza e le donne (altrettanto, se non più capaci) resterebbero fuori dalla vita politica di un territorio.

Barbie, in un certo senso, dà per scontato questo presupposto di necessità di equilibrio. Ma questo, proprio perché presupposto, non basta. Il film, a uno sguardo attento, ha tutte le carte in regola per diventare nel tempo un manifesto di un certo tipo di femminismo del 2023 – quello che prevede un’egual ridistribuzione dei diritti e delle possibilità -, ed è così perché la Gerwig ha strutturato le sue mosse con molta attenzione. Ed ecco, quindi, che si passa dal presupposto alla conclusione.

Lo strumento per veicolare uno dei messaggi più importanti del film è piuttosto sorprendente. Barbie, infatti, è una prospettiva satirica sui gravissimi deficit della società odierna, nonché una feroce critica al patriarcato e infine un tentativo di dar voce (letteralmente, semicit.) alle donne, vittime di tale sistema. Tutto il lungometraggio, per di più, sembra avere ben chiaro quale sia il giusto e quale lo sbagliato e i Ken, dopo la scoperta del mondo reale, sembrano appartenere a quest’ultima categoria. Ma, ancora una volta, le apparenze ingannano. Ken è circondato da un environment sociale sbagliato fin dal principio: non è “giusto” che Ken non esista senza Barbie, che addirittura non abbia una casa in cui stare, come non è giusto che sostenga il patriarcato o ritenga che in Barbieland gli uomini debbano prevaricare le donne.

Il suo diventare un villain nella parte centrale del film è fondamentale per il ruolo che la Gerwig decide di affidargli nel finale: come apice di uno degli archi narrativi più interessanti del film, è sorprendentemente attraverso Ken che viene veicolato il più intenso messaggio di empowerment del film.

Dopo aver scoperto che a causa della loro stupidità i Ken avevano nuovamente perso ogni cosa, e dopo aver accettato che Barbie non lo vuole come compagno di vita, Ken capisce (anche grazie alle parole di Barbie) che non si deve vivere in funzione di qualcuno o qualcosa: tu non sei la tua ragazza, il tuo lavoro, i tuoi vestiti. Tu sei tu, autonomo/a, indipendente, e solo se riconosci la tua non accessorietà sarai in grado di diventare tutto quello che vuoi.

La potenza di questo messaggio universale sta nel fatto che è trasmesso da un uomo in un film a trazione femminile e che, soprattutto, vale per qualsiasi individuo, per qualsiasi essere umano. Greta Gerwig così regala equilibrio, regala il suo significato di femminismo: non lottare perché le donne schiaccino o prevarichino sugli uomini, ma lottare perché le donne siano finalmente e veramente uguali, nei loro diritti, agli uomini.

È assurdo pensare che, nel nostro mondo, in determinati ambiti questa uguaglianza ancora non ci sia. Ma Barbie può dare, nel suo piccolo, uno scossone di consapevolezza. Alla fine l’arte, e quindi anche il cinema, ha sempre avuto il nobile ruolo di scuotere le coscienze: lasciamo che siano scosse e magari, un giorno, saremo in grado di scuoterle.

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