Buffalo ’66 – Una nevrosi americana

Francesco Saturno

Novembre 13, 2023

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Buffalo ’66, per la regia e la sceneggiatura di Vincent Gallo, che interpreta in questo film anche il ruolo del protagonista, approda nei cinema italiani a ridosso degli anni duemila. È il 1998 quando Gallo, americano eccentrico e scomodo, di origini italiane, si cimenta nel suo primo lungometraggio, restituendo una pellicola che ancora oggi risulta impressionante e avvincente.

Fedele al cinema indipendente, il genere di questo film è, in effetti, difficilmente circostanziabile: elementi eterogenei, dal pulp al drammatico, si mescolano per dare vita ad un film che si regge in piedi su sé stesso, senza la necessità di vedersi incasellato in una categoria particolare.

Buffalo ‘66, al di là delle critiche che lo tacciano di superficialità, o che lo provocano additandolo come un racconto a-moralistico, è un film che, nelle sue diverse dimensioni – tra l’altro colte con dei piani sequenza tanto elaborati da portare la bellezza della fotografia in primo piano – ci presenta uno spaccato degli Stati Uniti piuttosto decadente, in cui, al ritmo centellinato della colonna sonora, si oppone un sentire piuttosto asfissiante. Non fosse altro che per il fatto che Billy Brown (Vincent Gallo) è un personaggio e un protagonista ossessionato e ossessivo, tanto che il senso dei suoi gesti viene rimandato allo spettatore con la stessa illogicità da cui si originano, donando al film stesso un’atmosfera tra il lugubre e il frenetico.

Layla (Christina Ricci) ascolta una confessione di Billy (Vincent Gallo) in un motel in Buffalo ’66

Personaggio controverso, paradosso umano sulla scia dell’uomo kakfiano, Billy è anche l’effetto di una famiglia americana disattenta alla cura e all’attenzione per il figlio; non c’è da farne uno stereotipo, però, né credo sinceramente che questo fosse l’intento di Gallo. Lui, regista, attore, attualmente gigolò carissimo, è un’artista controverso e gli eccessi a cui sembra essere sempre stato abituato (questo non è un film autobiografico, ma riprende alcuni passaggi della vita di Gallo, come la ludopatia del padre, per esempio) riecheggiano in questo film in dei passaggi piuttosto precisi.

Tra tecnica e sentimento

Se c’è un elemento grottesco, in questo film, lo si può rintracciare appunto nella convulsione prodotta da certe scene, o nelle ambientazioni chiuse tra quattro pareti domestiche, in cui sembra di respirare la stessa ansia che un carcerato può sperimentare nella sua cella.

Il senso di oppressione, il gusto nauseabondo di certi modi di rivolgersi all’altro, le nevrosi che abbagliano i protagonisti, la violenza del linguaggio quanto dei movimenti, è probabilmente ben rimandata proprio dalla tecnica registica adottata da Gallo.

Il regista sceglie consapevolmente di immettere lo spettatore in una realtà allucinata; la causa è da attribuire, ancora una volta, al tono turbinoso che egli sceglie di adottare per raccontare la storia del film. Allo spettatore attento non potranno sfuggire le rotture narrative, il disturbo prodotto da certe interruzioni di scena e l’estasi che si prova di fronte alla cristallizzazione di certe fotografie.

La narrazione è interrotta in più punti da split screen improvvisi, flashback biografici del protagonista (come scene della sua infanzia in famiglia) o da riprese a rallentatore con un forte potenziale evocativo; emblematica è la scena in cui Layla (Christina Ricci) è illuminata, come una bambola, in una sala da bowling mentre danza in modo ammiccante un lento tip-tap sulla musica di Moonchild dei King Crimson; o ancora restano iconiche le scene finali del film, in cui una visione del protagonista viene fissata sullo schermo attraverso l’utilizzo di un fermo-immagine pulp che inscena l’esatto istante di uno sparo su un morto attonito e l’istantaneo schizzo di sangue che ne segue.

Layla balla da sola al centro della scena in Buffalo ’66
Billy dopo essersi sparato un colpo alla tempia (nella sua visione) in Buffalo ’66

I colori stessi del film, tra il macabro e il tetro, proiettano la psiche del protagonista in una dimensione opprimente e insopportabile, da cui ha difficoltà ad evadere. Ancora una volta la regia serve la narrazione, se ne fa schiava, e le riprese che disturbano esteticamente lo spettatore hanno il fine di rimandargli, attraverso inquadrature e riprese a tratti paranoiche, il senso di intollerabilità e assurdità della storia.

I protagonisti al baratro della nevrosi

Billy Brown è figlio di un padre aggressivo e a tratti paranoico (a Billy basta mettere un coltello sulla tavola sulla quale stanno mangiando per vedersi accusare da lui di volerlo uccidere), di una madre insistente e invadente, ma al tempo stesso totalmente disattenta alla vita del figlio e unicamente presa dalle partite dei Buffalo Bills. Paradossale che Billy cerchi la loro approvazione? Niente di meno atipico, stando le dinamiche psicologiche che accompagnano un figlio non amato dai genitori. Ma è senz’altro già in questa scelta (cos’altro è cercare costantemente di apparire ciò che non si è agli occhi dei propri cari?) che si può rintracciare la melodrammaticità di questo film.

Sarà forse proprio questa fissazione della madre per la squadra di football americano a spingere Billy a giocare compulsivamente per guadagnare qualche soldo facile. Una delle sue puntate, da dieci milioni, proprio sui Buffalo, gli va però male a causa di un giocatore che si è a sua volta venduto. Per questa scommessa persa, e per la sua impossibilità di pagare la somma puntata, Billy è costretto a trascorrere cinque anni di carcere al posto di un altro vero colpevole. È l’unica possibilità che gli si offre per non soccombere e lui, fedele ad uno spirito stoico che sembra fare acqua da tutte le parti, la accetterà, continuando a coltivare in quegli anni di carcere la volontà di ammazzare quel giocatore che gli ha rovinato cinque anni di vita.

Una volta uscito di lì, totalmente perso nelle menzogne che ha rifilato per anni ai suoi genitori, a cui ha raccontato di lavorare per il governo americano e di essersi sposato, Billy è costretto in malafede a rapire una ragazza, Layla, una inverosimile e svampita ballerina che sarà costretta dalla sua violenza a interpretare la parte della sua brava mogliettina.

Billy e Layla a pranzo dai suoi; il padre, molesto anche con la ragazza, e la madre, superficiale e distratta in Buffalo ’66

È a tavola coi suoi, dove con la forza Billy – a cui si contrappone la passività di Layla – la trascinerà, che si mette in scena tutto il concerto nevrotico della situazione.

Ad impressionare non è naturalmente soltanto il senso di amore che sembra nascere istantaneamente negli occhi di Layla al cospetto del suo carnefice (qui la nevrosi non risparmia nessuno e non è difficile pensare alla Sindrome di Stoccolma), ma anche il paradosso che si ingenera nell’incontro tra i due: Billy è sì un violento, una sorte di aggressore, un omicida in potenza, ma è anche un bambino che non è mai stato visto dai propri genitori. È qui, in queste congiunture sottili e pretestuose, che noi possiamo rintracciare l’ambivalenza del personaggio, che da un lato cerca tenerezza e convalida da parte dei suoi e della ragazza, e dall’altra non riesce ad accettarne nessuna, sempre paranoicamente convinto che gli altri lo giudichino male.

Non a caso, a testimonianza dei trascorsi non troppo felici della sua vita relazionale, affibbia, davanti ai genitori, a Layla il nome di Wandy Balsam, una ragazza amata al liceo e mai avuta che re-incontrerà, non a caso, in una stazione di servizio. La violenza verbale e serprentesca utilizzata dalla vera Wandy sta ancora una volta a testimoniare l’esasperazione a cui è sempre stato sottoposto il protagonista. E poi c’è questa Layla, sempre così accondiscendente, da subito innamoratissima del suo carnefice, che rivela nei suoi tratti infantili e inverosimili l’anima ingenua di chi non ha nessuna coscienza della situazione in cui si sta andando a mettere.

Billy vuole scappare dopo aver incontrato la vera Wandy Balsam in Buffalo ’66

Nell’ultima telefonata che Billy fa al suo amico Tonto, l’unico che lo abbia mai aiutato, anche a mantenere la menzogna coi suoi genitori durante i cinque anni di detenzione, si avverte il senso di disperazione in cui il protagonista si vede gettato nel rincorrere il destino che si è prefissato: uccidere chi gli ha rovinato la vita e suicidarsi.

Sarà la presenza di Layla, in motel, a cambiare le carte in tavola e ad impedire a Billy, dopo un sogno ad occhi aperti al cospetto di quel giocatore, in un locale circondato da donne, a tradire il suo proposito e a riportarlo (ma la scena non viene volutamente mostrata) al motel con una buona cioccolata calda, da consegnare tra le mani di quella donna che sembra essere l’unico bagliore seducente e positivo in un contesto altamente problematico per lui.

Nessun linguaggio comprensivo sembra poter abitare questo film, in cui la comunicazione è una sequela di fraintendimenti turbolenti che gettano nella disperata ricerca di affetto (per Layla come per Billy). Nella sua curatissima estetica emerge, dunque, il significato disagevole di un film che racconta di un luogo dai contorni scadenti, sbiaditissimo nella sua possibile interpretazione.

È tra la depressione e l’euforia concitata, tra la dolcezza più o meno mancata e il dramma, tra l’incapacità di amare e le relazioni totalmente distorte, a cui si assiste in questo film – soprattutto nelle scene finali che dovrebbero far pensare a un lieto fine –, che invece noi possiamo ritrovare la maniacalità di questi protagonisti, il loro afflato disperato per rincorrere, sul filo del rasoio, l’altra parte della barricata, il luogo in cui la vita vale la pena di essere vissuta autenticamente.

Buffalo ’66

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