Dis-Oriente – Clint Eastwood fra Patria e Giappone – Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima

Marco Nassisi

Luglio 2, 2024

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Dis-Oriente – Clint Eastwood fra Patria e Giappone – Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima

Nonostante sia uno dei cineasti più popolari della storia del cinema, potremmo definire Clint Eastwood come una figura atipica del mondo dello spettacolo, in particolare di Hollywood. Classe 1931, parliamo di un uomo ultranovantenne che ha recitato in più di sessanta film, dirigendone più di quaranta, con una frequenza spaventosa, invidiabile (nel suo ultimo Cry Macho, del 2021, interpreta il protagonista, ed è ancora dotato di un atletismo fuori dal comune per un uomo della sua età). Ma il fatto è che Eastwood è stato testimone di epoche cinematografiche e sociali che donano alla sua voce di autore un valore diverso.

Nella seconda metà degli anni Ottanta è stato per un paio d’anni sindaco di una piccola città sulla costa californiana, ma il suo interesse per la politica risale al sostegno per Dwight D. Eisenhower nel 1951. Dunque repubblicano, sì, ma non per questo obbligatoriamente conservatore nella sua accezione più stereotipata. Atipico dunque anche in politica; favorevole ai matrimoni egualitari, all’aborto e all’eutanasia, e nonostante ciò, sostenitore di Donald Trump alle elezioni del 2016. Patriottico e libertario. Questi sono gli ingredienti dell’ideologia di Clint, il quale non ha bisogno di farsi etichettare dall’opinione pubblica.

Ciò rende la sua filmografia estremamente variegata, da un punto di vista stilistico, ma soprattutto politico. Nulla vieta alla star divenuta nota al grande pubblico con l’antieroe della Trilogia del dollaro di Sergio Leone (antitesi estrema rivoluzionaria del John Wayne dei film di chiaro stampo repubblicano di John Ford) di essere anche l’irreprensibile Dirty Harry, ovvero l’ispettore Callaghan, giustiziere fascistoide (il cui personaggio, tuttavia, risulta molto più complesso di quanto la storia del cinema lo voglia far apparire).

Come al solito, una visione semplicistica della politica – e di essa nel contesto cinematografico e artistico in generale – ci impedisce di comprendere la natura dell’opera di Clint Eastwood. E per lo spettatore che resta in superficie è facile domandarsi come sia possibile che, ideologicamente parlando, il regista di Gran Torino (2008) sia lo stesso di American Sniper (2014). Esattamente come si potrebbe chiedere come sia possibile che il regista di Flags of Our Fathers sia lo stesso di Lettere da Iwo Jima. Nel nostro viaggio alla scoperta dell’Oriente visto con i disorientanti occhi occidentali, è proprio di questi due film che andremo a parlare.

Flags of Our Fathers Lettere da Iwo Jima Clint Eastwood
Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima

Usciti entrambi nel 2006 (assurdo!), rappresentano una dilogia avente come tema la battaglia di Iwo Jima, avvenuta tra il 19 febbraio e il 26 marzo 1945. Siamo a pochi mesi dalla fine della Seconda guerra mondale e il Giappone è a pezzi dopo una serie di pesanti sconfitte. Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki non sono ancora state sganciate, ma già alla fine del 1944 il Paese del Sol Levante si trova in condizioni di estrema difficoltà: la guerra è praticamente persa. Iwo Jima è una piccola isola vulcanica, considerata strategica dal Giappone quanto dagli Stati Uniti: un pezzo di terra nel Pacifico che sarà il teatro di una battaglia sanguinosa e a senso unico.

Al comando dell’esercito nipponico c’è il generale Tadamichi Kuribayashi, che a sua disposizione ha solo 21.000 uomini, contro gli oltre 70.000 americani. Ma la sua strategia, basata sullo sfruttamento di ogni singolo angolo dell’isola, attraverso la costruzione di bunker, trappole, fortificazioni e tunnel che permettono ai suoi uomini un facile spostamento, renderà lenta e difficoltosa l’avanzata degli Alleati, che vinceranno la battaglia, pianteranno la bandiera a stelle e strisce sulla cima del monte Suribachi e conquisteranno l’isola… ma soffrendo fino alla fine.

Il generale Kuribayashi sull’isola di Iwo Jima

Quella di Iwo Jima sarà l’unica battaglia in cui le perdite statunitensi saranno maggiori di quelle giapponesi. Questi ultimi sapevano quale sarebbe stato il loro destino. Sapevano che il loro tempo ormai era giunto, ma a rimanere nella storia sarà il coraggio e l’onore dimostrato durante il sanguinoso scontro che non avrebbe previsto un esito diverso.

Di quel gruppo di uomini morti per il proprio paese rimangono delle lettere, scritte proprio dal generale Kuribayashi, le quali saranno raccolte per dare vita al libro Picture Letters from Commander in Chief, che fungerà da soggetto di partenza per la scrittura della sceneggiatura di Lettere da Iwo Jima, scritta da Iris Yamashita, autrice americana di origini giapponesi. Per quanto riguarda Flags of Our Fathers, esso è tratto dall’omonimo libro di James Bradley e Ron Powers, e la sceneggiatura è di William Broyles e Paul Haggis (quest’ultimo anche produttore esecutivo e collaboratore al soggetto di Lettere da Iwo Jima).

La generale scelta di avvalersi degli stessi collaboratori per entrambi i film testimonia la voglia di Eastwood di creare un’unità estetica e concettuale tra le due opere, le quali avrebbero dovuto avere come minimo comune denominatore il ricordo dei caduti in battaglia, che a prescindere dallo schieramento erano tutti uomini, figli di una guerra massacrante. Lo scopo dei due film è proprio quello di raccontare la stessa vicenda da due punti di vista diversi.

L’impresa riesce perché Clint Eastwood non giudica nessuno dei suoi personaggi. Non ha problemi nel descrivere pregi e difetti di entrambi gli schieramenti, dotati di una propria cultura e soprattutto di una propria etica. Li rispetta. A rendere particolari i due film è proprio l’intento di raccontare due nazioni differenti nel modo di intendere la vita e la politica attraverso il medesimo evento che li vede coinvolti. Flags of Our Fathers racconta la battaglia attraverso gli occhi degli americani. Ma non si concentra tanto sulla battaglia in sé, quanto sul potere della propaganda, incarnato nella fotografia che ritrae un gruppo di soldati che issano la bandiera a stelle e strisce sulla vetta del monte Suribachi. A scattarla fu Joe Rosenthal, fotografo della Associated Press.

Flags of Our Fathers Lettere da Iwo Jima Clint Eastwood
Raising the Flag on Iwo Jima, di Joe Rosenthal, che con questo scatto vinse il Premio Pulitzer per la fotografia

Dietro quella fotografia di forte impatto c’è una triste verità. Non fu scattata dopo la vittoria dell’esercito americano, ma solo a quattro giorni dall’inizio della battaglia, il 23 febbraio 1945. Per entrambi gli eserciti sarebbe stato ancora un mese di inferno, sull’isola di Iwo Jima. Ma il governo americano pensò di promuovere quella foto come simbolo della loro gloriosa vittoria e raccogliere fondi per coprire quelli che in realtà erano dei disastrosi bilanci di guerra. Migliaia di soldati stavano morendo, e questo il governo lo sapeva bene. Dietro le vittorie degli americani c’è ovviamente il sangue dei vinti, ma anche quello dei vincitori.

I due film, cinematograficamente parlando, sono un campo e controcampo del medesimo evento. Ma Flags of Our Fathers si sviluppa su più livelli narrativi e in location molto differenti tra loro, a differenza di Lettere da Iwo Jima, che è interamente ambientato sull’isola. Questo perché alla fine dei conti, visti i presupposti, e con un minimo di conoscenza del contesto storico, è facile intuire chi sarebbero stati i vincitori del conflitto. Proprio per tale ragione, a Eastwood non interessa girare un film di guerra in senso stretto.

Il fatto che gli americani siano stati i vincitori è una ragione, in Flags of Our Fathers, per evitare di concentrare l’attenzione sul campo di battaglia e su ciò che a buona parte del pubblico statunitense (repubblicano) interessa, ovvero le strategie militari. Assolutamente no. In Flags of Our Fathers a Eastwood interessa parlare di un problema molto più importante e che ovviamente, da americano qual è, lo tocca più da vicino: il disturbo da stress post traumatico dei reduci catapultati nel vortice della stampa, che sfrutta la loro immagine a fini propagandistici.

Perché invece ambientare Lettere da Iwo Jima interamente sul campo di battaglia? Perché indirizzare l’attenzione dello spettatore sulla strategia e sulla tattica dei soldati giapponesi? La risposta risiede negli aspetti culturali che Eastwood tratta con il rispetto di un antropologo. Si parla di onore, di resistenza e di un destino che deve essere affrontato con dignità.

Fin dal primo minuto sappiamo che per i giapponesi non c’è speranza; e osservando i personaggi, in particolare il generale Kuribayashi, notiamo che anche loro stessi sanno che il nome del vincitore è già stato scritto sulle pagine della storia. E allora lo step successivo è affrontare la morte, che arriverà, presto o tardi, ma arriverà. Ma questo non deve impedire ai soldati di resistere con tutte le proprie forze. Dunque è sicuramente più interessante osservare la strategia che adottano quel numero di soldati notevolmente inferiore a quello degli americani per morire con onore, avendo lottato fino all’ultimo. È un’idea forse diametralmente opposta a quella dell’Occidente, sicuramente uno degli aspetti che segna con maggiore impatto le differenze culturali.

Flags of Our Fathers Lettere da Iwo Jima Clint Eastwood
Clint Eastwood con Ken Watanabe, interprete del generale Kuribayashi

A rendere speciale questo dittico è l’occhio sensibile del regista. L’oggettiva qualità tecnica ben visibile in entrambi i film non si traduce in una sterile spettacolarizzazione degli eventi attraverso sequenze bulimiche di sangue e morte. Certo, alla base di Lettere da Iwo Jima c’è sicuramente una forte drammatizzazione degli eventi e altrettanta sofferenza palpabile, e non a caso è proprio il film che narra il punto di vista giapponese a colpire per crudezza e tragicità. Ma è una scelta che Eastwood fa perché sa che a guardare il suo film sarà principalmente un pubblico statunitense (o più in generale occidentale), dunque necessita di enfatizzare determinati avvenimenti e dare al film un tono molto più truce – e per questo d’impatto – per colpire allo stomaco lo spettatore e sbattergli in faccia una parte della storia che da una parte di popolazione è stata letta poco, se non proprio ignorata.

Nonostante ovviamente non sia una commedia, Flags of Our Fathers si comporta invece come una satira sul potere e sui danni di un certo tipo di comunicazione che si serve di un utilizzo marcio della comunicazione per i propri interessi. In questo verso un film più canonico e, tutto sommato, eastwoodiano. È Lettere da Iwo Jima a dare maggiore valore a Flags of Our Fathers, ma non solo; è l’esistenza stessa di Lettere da Iwo Jima a dare un senso a Flags of Our Fathers, trasformandolo da un’apparente film pro-USA a un film profondamente contro.

Negli Stati Uniti entrambi i film furono un flop al botteghino. Clint Eastwood arrivava dal successo di Million Dollar Baby: oltre 200 milioni di incassi a fronte di un budget di 30 milioni e 4 premi Oscar (tra cui miglior film e regia allo stesso Eastwood). Gli americani si accorsero della presa di posizione di quella che già si sapeva essere una voce che, per quanto tecnicamente repubblicana, politicamente era molto più indipendente di quello che sembrava.

In Giappone Lettere da Iwo Jima fu un successo clamoroso. Un film del genere, i giapponesi, non l’avevano mai visto, e non avevano mai avuto la forza di produrlo perché troppo doloroso sarebbe stato il ricordo di quella che, alla fine dei conti, fu una sconfitta, nonostante l’atto eroico di soldati che sono come dei martiri. L’opera di Eastwood fu apprezzata perché vista come un segno di rispetto in grado di rendere giustizia a un evento unico nella storia, diretto con la testa e col cuore da colui che, da americano vincitore, avrebbe potuto semplicemente limitarsi a raccontare l’evento elogiando indistintamente il trionfo della propria nazione. Ma il ruolo degli sconfitti in una pagina della storia così importante era sacrosanto che avesse il giusto riconoscimento.

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