Il significato psicologico delle fiabe secondo Bettlheim

Francesco Saturno

Marzo 11, 2022

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Per introdurre la riflessione sul significato psicologico delle fiabe va detto, innanzitutto, che c’è una differenza sostanziale tra fiaba, mito e favola. La fiaba rimanda alla tradizione popolare laica e utilizza lo strumento del magico e del fantastico. Il mito è un prodotto collettivo che insegna una lezione con un significato religioso o spirituale di tempi ancestrali. La favola, invece, è un genere letterario che cerca di veicolare simbolicamente (anche attraverso protagonisti animali o cose inanimate) una morale.

Il linguaggio adoperato nella fiaba è intriso di elementi folcloristici, mette in mostra l’anima del popolo. Quello della favola è semplice e diretto.

In particolare, la fiaba e la favola assolvono un ruolo importante per il bambino: la fiaba quello di lavorare in prima persona su di lui e i suoi sentimenti, mentre la favola opera sulla sua comprensione della morale rispetto alla società.

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Bruno Bettelheim e Il mondo incantato

Lo psicoanalista Bruno Bettelheim

Un’interessante lettura riguardo all’uso delle fiabe e alla loro importanza è quella data dallo psicanalista Bruno Bettelheim (1976).

Secondo lo psicologo infantile la loro funzione principale è quella della scoperta e realizzazione della propria identità (attraverso lo sviluppo del proprio Sé) da parte del bambino.

Per Bettelheim le fiabe comunicano all’ascoltatore attraverso il linguaggio dei simboli, simboli che vogliono veicolare un contenuto inconscio. Essi comunicano alla nostra mente conscia e inconscia, a tutti e tre i suoi aspetti (Es, Io e Super Io) e al nostro bisogno di ideali dell’Io.

Tutto ciò che appare in una fiaba è per Bettelheim espressione di contenuti inconsci, potenzialmente passabili di interpretazioni psicologiche. Protagonisti animali, per esempio, con tratti non a caso antropomorfizzati, rappresentano le pulsioni animali dell’essere umano.

Bettlheim, in accordo con una visione già espressa a suo tempo da Carl Gustav Jung e Marie-Louise von Franz, condivide con essi una visione della fiaba come esperienza di trasmissione del Sé o di sue parti e componenti. Una visione che porta a considerare come le fiabe, utilizzando l’azione sulle forze inconsce, possano condurre a uno stato di trasformazione interiore.

Meno orientato dagli archetipi junghiani in senso stretto, Bettelheim rintraccia invece nelle fiabe dei veri e propri propulsori emotivi, capaci di generare elaborazione di significato nel bambino.

La matrice folcloristica delle fiabe evidenzia, per Bettelehim, problematiche inconsce non elaborate dalle popolazioni locali e sottolinea la necessità, per il bambino, di credere in qualcosa di magico.

«Le fiabe hanno un valore senza pari: offrono nuove dimensioni all’immaginazione del bambino, dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso. Cosa ancora più importante, la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono al bambino immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni a occhi aperti e con essi dare una migliore direzione alla propria vita».

(Bruno Bettelheim, Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, 1977)

Se per Bettelheim la fiaba «deve toccare contemporaneamente tutti gli aspetti della personalità del bambino. Questo senza mai sminuire la gravità delle difficoltà che lo affliggono, anzi prendendone pienamente atto. Nel contempo deve promuovere la sua fiducia in se stesso e nel suo futuro», allora è possibile perché essa contiene, a suo modo, una “funzione terapeutica”. La fiaba conserva, difatti, soluzioni alle domande interiori su cui il lettore medita e riflette, adattandole alla propria situazione

Il bambino che possiede un ampio bagaglio di fiabe ha, quindi, la possibilità di esteriorizzare i propri processi interiori, comprenderli, avere un controllo su di essi. Egli opera una sorta di trasposizione all’esterno delle proprie domande e questioni irrisolte, che diventano così comprensibili.

Il suo saggio Il mondo incantato, in particolare, spiega come le fiabe pongano il bambino di fronte ai principali problemi umani (il bisogno e il desiderio di essere amati, la percezione di essere inadeguati, il dolore e l’angoscia della separazione, la paura della morte, eccetera) rappresentando diverse situazioni. Le fiabe incarnano il bene e il male nei diversi personaggi, rendendo quindi distinto e chiaro ciò che nella realtà del bambino è confuso e caotico.

Dunque, per Bettelheim, esse esprimono in modo simbolico un conflitto interiore e suggeriscono come può essere risolto. In questo modo possono rincuorare il bambino e incoraggiare il suo sviluppo emotivo mentre lo divertono, stimolando la sua immaginazione e la sua fantasia (a questo proposito l’autore dedica un capitolo del suo saggio al tema del “superamento dell’infanzia con l’aiuto della fantasia”).

L’identificazione coi personaggi e la partecipazione emotiva alla fiaba sono d’altronde possibili perché le fiabe parlano il linguaggio dell’immaginazione, che è lo stesso del bambino.

Attraverso esempi fiabeschi della più famosa tradizione popolare fino ad arrivare alla fiaba orientale de Le mille e una notte, l’autore dimostra come il loro messaggio aiuti a superare l’angoscia di essere piccoli e disorientati in un mondo di grandi.

Le fiabe spiegano che solo affrontando le sfide della vita e superandole si potrà arrivare alla propria indipendenza e realizzazione, così come l’eroe ottiene la sua felicità dopo aver superato le battaglie e gli ostacoli che si presentano lungo il suo cammino.

fiabe
Raffigurazione della fiaba dei fratelli Grimm “Fratello e sorella”

Prendendo a titolo d’esempio solo una delle tante fiabe che Bettelheim analizza nel suo saggio, si può considerare, sulla base di quanto detto, la fiaba dei fratelli Grimm Fratello e sorella.

In questa fiaba, in cui uno “spirito malvagio” trasforma il fratello in un animale lasciando umana la sorella, si mette in luce una problematica che affligge il bambino sin da quando le sue pulsioni emergono e iniziano a contraddire le norme morali.

«Anche i primi filosofi videro l’uomo come composto di una natura animale e di una natura umana. […] La comprensione di questa dualità richiede una percezione dei processi interiori che è facilitata dalle fiabe che descrivono la duplicità della nostra natura. […] È questo il modo simbolico della fiaba di esprimere gli elementi essenziali dello sviluppo della personalità umana: in un primo tempo la personalità del bambino è indifferenziata; poi dallo stadio indifferenziato si sviluppano l’Es, l’Io e il Super-Io. In un processo di maturazione essi devono essere integrati».

(B. Bettelheim, Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe)

In questo processo di integrazione, però, il bambino deve passare per delle sofferenze e delle rinunce.

Nella fiaba la sorella rappresenta le funzioni mentali dell’Io e del Super-Io, mentre il fratello quelle dell’Es. Tutto ciò si evince dal fatto che il bambino, passeggiando con la sorella in un bosco e cedendo alle sue pulsioni (bevendo, per l’eccessiva sete, da una fonte pericolosa), viene trasformato dal potere di una strega in un cerbiatto. Si dimostra così che, non riuscendo a controllare le proprie pulsioni animali, il controllo razionale perde il suo potere frenante e conduce a esiti infausti.

Saranno solo la sollecitudine della sorella verso il fratello, così come quella della Regina del paese in cui i due fratelli vivono, a poter condurre alla giustizia e al riscatto dell’essere umano.

Nocciolo della fiaba è, dunque, il fatto che le forze animalesche dell’uomo (il cerbiatto) e quelle asociali (la strega) possano cedere il passo all’integrazione umana solo allorquando vengano rimosse attraverso l’utilizzo delle risorse razionali e della capacità di amare, rappresentata dalla matura funzione della sorella/regina.

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Il cinema e la favola

Il cinema stesso ha ripreso parecchi dei temi sollevati nelle antiche fiabe e favole, o trasponendole sullo schermo o attraverso la rielaborazione narrativa dei loro contenuti.

Nonostante, nel suo saggio, lo stesso Bettelheim si esprimesse contro la rappresentazione visiva delle fiabe (in quanto limiterebbe l’immaginazione del bambino, che all’atto esclusivo di ascoltarla si costruirebbe personaggi e ambientazioni attraverso il solo ausilio della sua fantasia), possiamo dire che sempre di più, oggigiorno, il cinema assume il compito di veicolare gli stessi argomenti archetipici da sempre trasmessi dalle fiabe, in una forma nuova, evoluta, di volta in volta contemporanea, ma con uno stesso significato e fine di un tempo.

In fondo la fiaba e la favola utilizzano quello stesso elemento magico e fantastico di cui alle volte il cinema si serve per mettere in scena una rappresentazione onirica della realtà. La fiaba si esprime in plurime e differenti sfumature, a seconda della poetica autoriale: dal dark di Guillermo del Toro e Tim Burton, alla favola reale di Paul Thomas Anderson e Damien Chazelle; dal lieto fine di Steven Spielberg e dell’Hollywood classica, all’anti-narrativa della Nuova Hollywood o dei fratelli Coen.

Ma, restando nel Bel Paese, passando dalla visione felliniana secondo cui il regista può trasporre le proprie visioni oniriche sulla pellicola, fino ad arrivare ai più attuali esempi di Matteo Garrone con Il racconto dei racconti (film del 2015 che riprende e trasforma alcune fiabe della raccolta Il cunto de li cunti di Giambattista Basile) la struttura e lo spirito fiabeschi continuano a far risentire la loro eco in maniera più o meno velata.

Le locandine dei due film di Matteo Garrone

Si pensi allo stesso protagonista di Dogman (2019) – film che, per la sua tragicità, sembra non conservare niente della fiaba -, successivo a Il racconto dei racconti. Il film, pur prendendo l’abbrivio da un fatto di cronaca nera realmente accaduto, rappresenta un dilemma che sin dal passato con le fiabe si cerca di trasmettere al bambino: la storia di un piccolo uomo che cerca di essere approvato da un mondo senza legge, crudele e degradante, e le cui decisioni e frequentazioni lo portano sempre più a dissociarsi dal mondo (a)sociale che lo circonda.

Il relegamento del protagonista alla sua solitudine è lo specchio tragico, anti-favolistico e simile per contrasto alla fiaba, di quel processo di integrazione che nel film fallisce e che in quei vecchi racconti fiabeschi cercava di essere raggiunto mediante l’utilizzo di figure archetipiche.

«Come il mondo vero finì per diventare favola».

(Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, 1889)

Leggi anche: Fiabe nere e fiabe bianche – Tra Matteo Garrone e Alice Rohrwacher

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