Luci d’inverno – Parola, Silenzio e Ascolto in Bergman tra Psicoanalisi e Spiritualità

Marco Nassisi

Dicembre 5, 2023

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Luci d’inverno di Ingmar Bergman – Parola, Silenzio e Ascolto, tra Psicoanalisi e Spiritualità

Qual è il senso della parola?

Il contributo della psicoanalisi sul tema della parola è stato il pensare che la dimensione di essa fosse quella della luce. Dove c’è parola, c’è salvezza. Come dice Freud, parlare fa bene. Per il padre della psicoanalisi, la parola è il più potente psicofarmaco sul mercato, perché alleggerisce, guarisce. La psicoanalisi è una talking cure, dunque una cura attraverso la parola. I dolori, le sofferenze, le pene delle persone (pazienti) sono silenziose. E i sintomi sono parole non dette, esternate da patologie come l’insonnia o la depressione. Il compito dell’analista è dare parola a ciò che non ha un reale modo per esprimersi: tradurre quel dolore e quella sofferenza in termini esprimibili attraverso la parola. Noi soffriamo per le parole che non abbiamo detto, che abbiamo mancato. Per quello che ci attendavamo e che non ci è mai stato detto (parole di riconoscimento, parole d’amore).

Ma come può lo psicoanalista dare valore a quelle parole? Con l’ascolto, perché onora la parola. È il principio del teatro, dal momento che uno spettacolo può essere definito tale se visto da almeno una persona (lo spettatore/la spettatrice). Ed è lo stesso principio del cinema, secondo cui un film ha valore dal momento che viene visto. Immagini che devono essere guardate. Suoni e parole che devono essere ascoltati. E l’essere umano vive una profonda mortificazione del proprio essere se non viene ascoltato; nei rapporti familiari, nei rapporti di coppia, con gli amici, con i maestri. Nel rapporto con Dio, come Giobbe, il cui grido è la richiesta di essere ascoltato. E l’uomo supplica che qualcuno si accorga della sua sofferenza. Chiede che qualcuno si accorga di lui. E dunque c’è un profondo nesso con la preghiera. Ogni parola è una preghiera.

«Ascoltaci, o Signore.»

(Preghiera della liturgia cristiana)

Ma affinché ci sia ascolto degno di onorare la parola è necessario il silenzio. Non c’è ascolto senza silenzio. Jaques Lacan sostiene che lo psicoanalista ne sia il custode, perché è il suo silenzio ad onorare la parola del soggetto, a dargli valore. La cura è il silenzio. Permettere a qualcuno di parlare e saperlo ascoltare. È la lezione didattica del sacerdote, docente ed educatore Don Lorenzo Milani. La parola è un’esperienza inclusiva in quanto implica necessariamente l’ascolto.

Lo svedese Ingmar Bergman, nel corso della sua sterminata carriera, ha cercato di indagare proprio sul tema che collega la parola, l’ascolto e il silenzio. Tra il 1961 e il 1963 dirige tre film. Tre storie molto diverse tra loro, che, collegate dall’interesse per le medesime questioni esistenziali, insieme formano la cosiddetta “Trilogia del silenzio di Dio”. La tesi risiede nel timore per il destino dell’uomo, in equilibrio sul fragile filo delle sue convinzioni mai del tutto confermate, e per questo portatrici di perenni dubbi. Il fallimento del tentativo di comunicare con l’onnipotente, dunque la mancata ricerca di conciliazione con l’inconciliabile, sono elementi pessimisticamente tradotti nel silenzio di Dio.

Quel silenzio si ripercuote nell’animo di Tomas Eriksson, protagonista di Luci d’inverno (1963), secondo film della trilogia. Tomas è il pastore di una piccola chiesetta sperduta nella neve, frequentata da una manciata di fedeli. Celebra la messa mentre l’organista non vede l’ora che la funzione finisca. Non sta bene. Da poco ha perso la moglie e sente di star perdendo anche la sua fede. O forse quella fede non l’ha mai avuta, e vive una profonda crisi spirituale. Rispetto al primo film Come in uno specchio (1961) e il terzo Il silenzio (1963), in cui il dramma è incarnato in uomini e donne comuni, l’interesse specifico in Luci d’inverno è l’approfondimento psicologico di colui che ha dedicato la sua intera vita alla preghiera e a Dio, e che mettendo in discussione la sua esistenza è come se mettesse in discussione sé stesso in quanto essere umano.

Parola, silenzio e ascolto, tra psicoanalisi e spiritualità
La crisi spirituale del pastore Tomas in Luci d’inverno

Come funziona la parola in un’esperienza analitica?

Il paziente parla del suo vissuto, del suo passato, delle relazioni che lo fanno soffrire. Racconta di sé. Ma la parola del paziente assomiglia a quello che l’Antico Testamento ci spiega essere la sua essenza. Ci dice che la parola non è semplicemente ciò che descrive le cose che già esistono. Non è la nominazione delle cose. La parola genera le cose. Rivela le cose, le fa esistere. Come nel mito della creazione. Dio disse, e così fu.

Nell’esperienza della psicoanalisi accade questo. Un paziente ha iniziato la sua analisi parlando di suo padre, che per lui era un problema. Era un mostro: la rappresentazione inflessibile della disciplina e della legge incarnata nel corpo e nella mente di un padre autoritario. Questo padre, descritto dalla parola del paziente come un padre repressivo, alla fine della sua analisi è come se avesse cambiato volto. È diventato un uomo angosciato. Quel padre era un mostro perché nel profondo era un uomo angosciato.

È grazie alla forza della parola, liberata dal paziente, che si è giunti a questa trasformazione. Perché la parola fa esistere il passato in modi nuovi. Non si tratta semplicemente di ciò che è già accaduto, perché noi lo trasformiamo continuamente con la parola. La parola ha una potenza generativa perché muta gli eventi del passato.

Bergman ha vissuto un’infanzia difficile, segnata dal rapporto conflittuale col padre, che era un pastore luterano severissimo. Questa esperienza l’ha profondamente segnato. Leggendo la sua autobiografia Lanterna magica (1987), oltre a toccare con l’immaginazione le traumatiche esperienze vissute in casa Bergman, si comprende come tutte le opere del regista svedese siano in qualche modo autobiografiche. Tomas non è altro che lo stesso Bergman nei panni di suo padre, il quale forse era il padre che era per via dei demoni che abitavano il suo animo, che lo rendevano un mostro, quando forse era solo un uomo angosciato, psicologicamente in bilico, forse con la sua stessa fede.

Parola, silenzio e ascolto, tra psicoanalisi e spiritualità
Erik Bergman, pastore luterano, padre di Ingmar

Tomas: «Se veramente Dio non esistesse, nulla avrebbe più importanza. La vita avrebbe una spiegazione, sarebbe un sollievo; la morte solo una frattura, la fine del corpo e dell’anima; la crudeltà della gente, la sua solitudine, i suoi timori, tutto sarebbe chiaro come la luce del giorno: le sofferenze non dovrebbero più essere spiegate»

Un paziente, sul divanetto, dallo psicologo, ha il diritto di dire tutto quello che gli passa per la testa. Dunque con la parola, e la forza di essa, inizia a srotolare la potenza dell’inconscio, eppure non riuscirà mai a dire veramente tutto. Tra il suo dire e il suo essere continua ad esistere una discrepanza, un distacco. Per questo la psicoanalisi non è semplicemente svuotare il sacco. Perché sarebbe troppo facile. L’uomo ne uscirebbe completamente soddisfatto. Ma l’uomo non è facile, e dunque nel sacco resta sempre qualcosa, non esce fuori tutto e c’è una sorta di incompatibilità tra la parola e l’essere: la parola non traduce perfettamente il nostro essere.

Tomas in Luci d’inverno, da uomo di fede, e dunque da mediatore tra Dio e i fedeli, è come se si facesse psicoanalista di coloro che cercano risposte nella parola dell’onnipotente. E a sua volta è come se fosse paziente di Dio. Il senso di debolezza del pastore, che non trova risposte per chi crede nella sua parola, si tramuta in uno sguardo freddo e un cuore gelido, come la neve scandinava fuori dalla chiesa. E perdere la fede significa perdere la fiducia del fedele e instillare preoccupazioni che possono condurre alla pazzia. È il caso di Jonas (Max Von Sydow), parrocchiano preso dalla psicosi di una guerra nucleare. Tomas prova dissuaderlo dai pensieri suicidi che attanagliano il suo animo, ma Jonas, di fronte alla crisi spirituale che il pastore non riesce a non confessare, finirà per concludere i suoi giorni nel più tragico dei modi.

Tomas: «Ho sempre creduto in un dio quasi privato, buono e paterno, che amava gli uomini come dei figli, e me più di tutti. Jonas, non capisci il mio terribile sbaglio. Vedi che non ho la possibilità di aiutare nessuno perché sono un cattivo pastore? Può immaginare le mie preghiere a un dio che mi do solo risposte benevoli e benedizioni confortanti. Tutte le volte che ho messo Dio a confronto con la realtà l’ho visto diventare feroce, distante e crudele, un mostro.»

Parola, silenzio e ascolto, tra psicoanalisi e spiritualità
I dubbi di Tomas si ripercuotono nell’animo già fragile di Jonas in Luci d’inverno

Tornando sul divanetto dello psicologo, mentre il paziente parla liberamente, alcune parole chiave ritornano, si ripetono costantemente. Si tende a girare attorno sempre a certi temi. Queste parole che ritornano costantemente, che si impongono sulle altre, cariche di un forte significante, sono definiti chiodi. E ognuno di noi ha i suoi chiodi.

I film di Bergman sono come una serie di sedute psicoanalitiche, che il regista crea per capire qualcosa in più di sé stesso, e anche se ogni film ha una trama diversa, con personaggi e ambientazioni diverse, alcuni temi sembrano ripetersi costantemente. Quei temi sono i chiodi del regista, dell’autore, che è tale proprio perché non importa che storia stia raccontando, che genere stia affrontando, che stile tecnico stia utilizzando. Importa la poetica, che è come un sacco in cui dentro ci sono degli oggetti… dei temi. Dunque dei chiodi. E a questi chiodi ognuno di noi obbedisce inconsciamente, perché sono parte del nostro vissuto, di ciò che ci rende individui singolari con una propria esperienza di vita.

Ingmar Bergman nei suoi film indaga sé stesso

Il primo chiodo, il più importante per il paziente, è il proprio nome, ovvero ciò che ci distingue dagli altri. Al contrario, ci sentiamo inutili se trattati come un numero. Così come un fedele (consapevole di star pregando un dio pregato da milioni di altri fedeli) vuole essere trattato come un individuo, non come uno dei milioni di fedeli persi nella massa. Il più delle volte il fedele vorrebbe un rapporto privilegiato con il suo dio.

Tomas, essendo un ministro del culto, colui che fa da tramite tra Dio e il fedele, si sente ancora più in diritto di avere questo rapporto privilegiato con il divino. Con ciò si spiega meglio la sua sofferenza e la profonda crisi causata dal sentire che Dio, da un po’ di tempo, non gli sta parlando; lui si inginocchia, gli tende l’orecchio, offre il suo ascolto, e lui non parla. Magari non lo sta ascoltando. O magari parla ed è Tomas a non sentirlo. E allora è ancora peggio. Non solo fallisce nel tentativo di salvare Jonas. Fallisce nel suo rapporto con Marta, insegnante a cui non importa nulla della religione; lei è dichiaratamente innamorata di Tomas, fa di tutto per aiutarlo a superare questo delicato momento, offrendogli il suo sostegno. In cambio riceve il rifiuto di un uomo i cui schemi sono saltati.

«Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

(Gesù Cristo)

Il dramma interiore di Tomas in Luci d’inverno è molto più vicino di quanto si possa pensare al dramma di Gesù. È il sacrestano Algot a rifletterci, riferendosi all’episodio della Passione di Cristo. La sofferenza del Figlio di Dio non è tanto fisica. Non è quella provata sulla croce, ma piuttosto l’abbandono dei suoi discepoli, che non lo ascoltarono, tradendolo.

Per Bergman Il silenzio di Dio non è il silenzio di chi ascolta, ma di chi abbandonato. La sua visione in Luci d’inverno è fortemente pessimistica: colui che è in silenzio è colui che non c’è più, o forse colui che non c’è mai stato. Ma ciò può avere senso nel rapporto uomo-Dio, che è irrimediabilmente un rapporto impari. Al contrario, nella reale esperienza psicoanalitica, ovvero nel rapporto uomo-uomo (nel caso del film, il rapporto uomo-donna, ovvero Tomas-Marta), quel silenzio diventa lo strumento di presenza fisica e morale più forte che ci sia. Il mezzo più potente per valorizzare la parola.

Leggi anche: Dio, Bergman e la morte

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