Sei sfumature di donna nel cinema.
Sono in molti a ritenere che questa sia una celebrazione superflua, poiché la giornata delle donne dovrebbe essere ogni giorno, e c’è anche chi afferma che questa festa, che poi festa non è, non serva a esprimere uguaglianza, ma bensì disuguaglianza.
Perché, in fondo, se davvero fossimo tutti uguali, che bisogno ci sarebbe di celebrare le sole donne e non gli uomini?
Allontanandoci dalle opinioni dei detrattori, noi della Settima Arte abbiamo deciso oggi di celebrare la figura della donna nel cinema, perché, che dir si voglia, la giornata della donna non è affatto un esempio della cosiddetta reverse discrimination, ma è al tempo stesso una conquista e una condanna al passato.
Perché abbiamo bisogno della giornata della donna, anche se siamo tutti uguali?
Perché in passato tutti uguali non siamo stati (basti pensare che in Italia le donne hanno visto riconosciuto il loro diritto di voto solo alla fine della seconda guerra mondiale), e perché, in fondo, disuguaglianze di fatto radicate nella tradizione di un mondo creato da uomini, continuano ancora a esistere.
Ma noi siamo la nuova generazione, la generazione cittadina del mondo, che rifiuta ogni tipo di discriminazione, ed è per questo che anche noi, oggi, abbiamo deciso di celebrare la giornata della donna, la giornata dell’uguaglianza, la giornata della vittoria del progresso culturale e sociale sull’oligarchia dei diritti.
Ecco a voi le opere della settima arte che, secondo la nostra redazione, esaltano maggiormente l’evoluzione della donna da gentil sesso a sesso forte, pari ordinato a quello maschile.
Erin Brockovich di Francesca Casciaro
La donna nella lotta per l’emancipazione
È il film che ha consacrato la carriera di Julia Roberts, tratto da una storia vera, racconta le vicende di Erin Brockovich, una giovane madre di tre figli, senza marito e alla disperata ricerca di un lavoro per poter mantenere la sua famiglia.
In seguito a uno sfortunato incidente riuscirà a farsi assumere allo studio di Ed, avvocato.
Erin, anche se non ha ricevuto alcuna istruzione, è una donna sveglia e intraprendente, dotata di straordinaria tenacia, e così, archiviando alcune carte, scoprirà che una grossa industria statunitense ha messo in pericolo la vita di centinaia di persone contaminando l’acqua con sostanze tossiche.
Qui inizia la battaglia personale di Erin che, pian piano, riuscirà a convincere Ed che lei, anche senza una laurea in legge, è perfettamente in grado di essere all’altezza della situazione, e di poter essere decisiva per la vittoria di una causa milionaria.
Questo film ci mostra il ritratto di una donna straordinaria, profondamente idealista e tenace, che non si abbatte davanti alle difficoltà e lotta con tutta se stessa per ottenere giustizia. La sua battaglia, oltre che col colosso dell’industria che ha rovinato la vita di innumerevoli persone, è anche contro se stessa: dedicandosi totalmente al suo lavoro Erin è infatti inevitabilmente costretta a trascurare la sua famiglia perché, lei lo sa, è solo combattendo le grandi ingiustizie, e assicurando ad altre madri come lei un giusto risarcimento per le sofferenze che hanno dovuto subire, che potrà assicurare ai suoi figli di vivere in futuro in un mondo migliore.
Erin: «Non avrò una laurea in legge, ma so la differenza tra bene e male».
The Hours di Francesco Gamberini
Tre donne, una comune ricerca di indipendenza
The Hours si sviluppa attorno a tre storie di donne, alla ricerca del proprio equilibrio e della propria felicità: Virginia Woolf, che nella Londra degli anni 20 è impegnata nella stesura suo ultimo romanzo, Mrs Dalloway; Laura Brown, casalinga infelice della middle class americana della Los Angeles degli anni 50; Clarissa Vaughan, editrice lesbica, che, nella New York contemporanea, sta organizzando una festa per lo scrittore gay Richard, malato di Aids e suo ex amante.
Queste tre storie, ambientate in epoche, luoghi e contesti diversi sono accomunate principalmente dal romanzo Mrs Dolloway che, sia Laura che Clarissa stanno leggendo. Ed è proprio un libro così originale e unico a suscitare nelle tre donne la volontà e il desiderio di condurre una vita diversa, al di fuori dagli schemi che la società impone.
Ovviamente questo fortissimo bisogno di indipendenza è accompagnato da un profondo senso di solitudine e malinconia.
Non a caso, Virginia Woolf, incapace di trovare la serenità che tanto desiderava, si suicidò, mettendo fine alle sue sofferenze, perché sperava di avere una seconda possibilità dalla vita. Dall’altro lato, Laura è intrappolata in un’esistenza ordinaria e opprimente da cui decide di scappare, per coronare il suo sogno di libertà, consapevole di causare dolore a chi le sta attorno.
Infine, Clarissa ha già raggiunto la felicità grazie a un lavoro appagante e una donna che ama, ma non riesce a lasciarsi il suo passato alle spalle e condurre una vita serena priva di preoccupazioni.
The Hours esplora i turbamenti dell’animo e l’inafferrabile flusso di coscienza che lega tre anime unite nel dolore.
Il film parla certamente di morte, ma è anche un inno alla vita: attraverso le epifanie delle protagoniste infatti, lo spettatore capisce di avere una possibilità, più o meno drastica, di dare un senso alla propria vita e vincere il dolore.
The Color Purple di Gianluca Colella
Essere donna, e la tragedia di una doppia emarginazione
In questa pellicola Spielberg rappresenta la condizione tipica delle donne afroamericane nei primi del Novecento: il film ruota intorno a Celie, una ragazza violentata ripetutamente, prima dal patrigno, poi dal rude marito Albert, che la schiavizza.
Essere una donna di colore è un ostacolo insormontabile per Celie, alla quale la vita sembra non donare mai una vera speranza.
Col trascorrere del tempo Celie conduce una vita sempre più misera e indegna, senza conoscere né amore né giustizia, ma quando Albert porta in casa la cantante Shug, sua amante, imprevedibilmente le due donne diventano amiche e si confidano tra loro.
L’ingresso di un’altra persona “indipendente” nella sua vita farà sì che la storia della povera schiava di dolore inizi a prendere una traiettoria nuova, guidata da consapevolezza e determinazione: Sofia, moglie di Harpo, il figlio di Albert, è ribelle, forte e temeraria.
Quando poi, durante una cena, in presenza di tutti i membri della famiglia Shug dichiara ad Albert l’intenzione di partire per un tour musicale e di voler portare Celie con sé, di fronte al rifiuto del crudele marito, Celie pronuncerà un discorso carico di dignità, orgoglio e rabbia, un discorso rivoluzionario per la sua vita.
Il messaggio di riscatto che Il colore viola trasmette è questo, comune alle donne, ma non solo: un messaggio che celebra la determinazione e la speranza in un mondo in cui non regnino odio e xenofobia, ma amore e solidarietà.
Celie: «Io sono povera, sono negra, sono anche brutta… ma buon Dio, sono viva! Sono viva!».
Agorà di Francesco Gamberini
Essere donna come ricerca della ragione
Agorà narra la storia della filosofa, astronoma e matematica greco-alessandrina Ipazia.
Nella Alessandria d’Egitto sconvolta dagli scontri di religione, fra Cristianesimo e Paganesimo, a cavallo fra IV e V secolo d.c, Ipazia si dedica all’osservazione dei moti celesti e mette in discussione il sistema tolemaico.
Fiera sostenitrice della scienza e della libertà di pensiero, Ipazia sceglie di difendere a ogni costo la cultura laica pagana dagli attacchi del fanatismo cristiano. Quando però il cristianesimo prende il potere, Ipazia, intenta a dimostrare l’ipotesi delle orbite ellittiche dei pianeti, viene accusata di empietà e stregoneria dal vescovo Cirillo che la costringe a battezzarsi per avere salva la vita. Ipazia rifiuta e così viene messa a morte, mentre il vescovo viene santificato.
Amenabár realizza un film dallo spirito laico e moderno attraverso un efficace stratagemma: spostare una vicenda contemporanea lontano nel tempo, ma ambientarla coerentemente nel contesto in cui viene rappresentata. Ipazia infatti vive nella città della tolleranza per antonomasia, Alessandria, ma proprio nel simbolo della tolleranza, si combatte una guerra basata sull’intolleranza: cristiani contro pagani, scienza contro religione, uomo contro donna.
Colpendo lei e il suo pensiero si colpisce direttamente al cuore quanto ancora resta in vita dello spirito laico ellenico. Ed è proprio in questo luogo di repressione e prigionia che Ipazia sceglie: sceglie di non scegliere la religione. Decide di allontanarsi dalla violenza e dall’ignoranza, per abbracciare la filosofia e la ragione.
Il film ruota tutto attorno alla figura dell’eroica filosofa, interpretata magistralmente da Rachel Weiz, donna sola ed emancipata che, se non fosse stata lapidata dai cristiani, sarebbe forse riuscita ad anticipare di ben dodici secoli il modello astronomico di Keplero e di Copernico.
Il film pone al di fronte allo spettatore la tragedia, cruda e amara, di uno spirito libero che è morto in nome delle sue idee, ma il cui esempio sopravvive a lungo nella memoria di chi guarda.
Cristina Yang- Grey’s anatomy di Marta Cervellino
L’ideale di forza femminile
Nel giorno in cui si ricordano le donne che hanno combattuto per la nostra emancipazione e libertà, credo sia doveroso concentrare la nostra attenzione sui personaggi femminili che al giorno d’oggi ispirano le ragazze a essere forti e indipendenti.
Il mondo del cinema e delle serie tv ne è costellato, ma noi ci focalizzeremo su Cristina Yang, la famosa chirurga di Grey’s Anatomy.
Quando conosciamo Cristina la prima impressione è quella di una saputella gelida e robotica, concentrata solo su sé stessa e sulla sua carriera. A prima vista non sembra essere il genere di persona con la quale poter empatizzare, ma ha numerose qualità che la rendono una vera donna alpha.
Cristina non si lascia intimorire dalle sfide, tutt’altro, le affronta di petto tirando fuori i denti e combattendo come una leonessa. Si fida poco delle persone e per questo alza un muro per potersi proteggere, ma nel momento in cui capisce di trovarsi in territorio amico si lascia andare. Ha a cuore l’amicizia con Meredith, la “sua persona”. Sarà forse grazie a lei che Cristina abbatterà il suo muro di pietra?
Nella sua vita ne succedono di cose che la lasciano a terra, ma lei trova sempre il coraggio e la forza di alzarsi, dopo essersi lasciata andare alle sue emozioni.
Non puoi affrontare il mondo intero se prima non fai i conti con i tuoi demoni.
Cristina ci ricorda che è difficile essere donna e che, per quanto forti e coraggiose possiamo essere, nessuna lotta ha valore se non l’affronti con “la tua persona”. Nel momento in cui si è aperta con Meredith, Cristina ha trovato una complice e un rifugio sicuro per quando il mondo le crolla addosso.
Può succedere qualsiasi cosa, ma finché l’affrontano insieme, è impossibile avere paura.
La Città delle Donne di Francesco Malgeri
Fellini e la natura femminile come riscoperta onirica
Nella Città delle donne ci ritroviamo nel mezzo di un tanto incomprensibile quanto surreale viaggio ai confini della realtà: un viaggio che ci trapianta al centro della complessa natura femminile che, per quanto l’uomo si sforzi e si spinga a voler conoscere, non comprenderà mai abbastanza.
Il vecchio Snaporaz è un affascinante cinquantenne la cui passione per il gentil sesso lo spinge a seguire una donna, appena conosciuta sul treno, nell’irrealtà di una stazione in aperta campagna; dopo aver perso di vista la donna, egli si ritrova all’interno di un hotel che ha tutte le sembianze di una dimensione a sé, al di fuori del realtà. Una dimensione popolata dalle donne: solo donne in ogni dove.
Sembra un paradiso per il passionale Snaporaz, che dapprima esplora ogni antro del bizzarro hotel con fervente curiosità.
Ma con l’andare delle sequenze, il protagonista si rende conto di esser finito in una trappola surreale, da cui non c’è via d’uscita; ed è proprio questo surrealismo, che sottrae alla realtà i suoi confini tangibili, a trasformare il viaggio in un’autentica prigionia: Snaporaz viene sballottato in questo universo a lui incomprensibile, nella profondità e nella complessità dell’animo femminile, incontrando ogni tipo di donna possibile, e una più irraggiungibile dell’altra.
Fellini ci mostra nuovamente il suo talento favolistico, dando sfumature estremamente particolari a ogni donna che il suo protagonista incontra lungo il viaggio e, soprattutto, ben lontane dalle stereotipate figure femminili che tutti conosciamo.
Snaporaz ne esce frastornato, disorientato; è una metafora sullo sforzo che ogni uomo compie nell’esplorazione dell’altro sesso, che mai veramente giunge a una conclusione.
Il maestro di Rimini mostra nuovamente come nell’esistenza umana non regni che confusione e ricerca illusoria di chiarezza, di conoscenza; delle donne, in questo caso. Una chiarezza di fatto irraggiungibile, introvabile.
La Città delle donne rimane un titolo indelebile nell’immaginario di ogni appassionato dell’apologia felliniana. E non potrebbe essere altrimenti.