Nuovi Luoghi: L’Odio sulla mia pelle – Conoscere per disinnescare l’Odio

Carmine Esposito

Marzo 18, 2019

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La storia di Stefano Cucchi è prima di tutto una storia di indifferenza; prima di essere un caso di cronaca nera, di mala polizia o di mala sanità. Nel seguire le cronache giudiziarie prima, e il dibattito attorno al film che ne ricalca la vicenda dopo, si sono poste e rincorse una miriade di domande, le più disparate. Com’è stato possibile? Chi doveva vigilare, curare, tutelare, cosa stava facendo? Cosa si può fare perché non ricapiti? Ma soprattutto, e se al posto suo ci fossi stato io? Un sentire comune, quello della Consulta Giovani di Capri, che ha portato alla creazione di “L’odio sulla mia pelle”, un dibattito che parte dalla proiezione della pellicola realizzata da Netflix, per provare a sentire l’angoscia e la paura provate da Stefano, e poter rispondere anche se solo in parte a tutte queste domande. Discutere e confrontarsi, empatizzare per sforzarci di restare umani e per ricordare a noi stessi che dietro la facciata di pregiudizi e insulti montati ad arte ci sono fratelli, figli, persone come noi.

Sulla mia pelle

“Sulla mia pelle” è una cronaca per immagini. I fatti si susseguono uno dopo l’altro, come un cane che si morde la coda; si parte dalla morte e vi si ritorna alla fine. Lo spettatore viene trascinato giù nell’inferno di Stefano e della sua famiglia senza un Caronte; senza una guida, una voce che possa dare l’idea del terremoto di emozioni che passa sotto la pelle in quei momenti. Tutto traspare solo dalle espressioni e dagli sguardi, sembra quasi di guardare dallo spioncino della camera di questa famiglia. Se da un lato si avverte l’assenza di un vero e proprio flusso di coscienza, dall’altro esperienza insegna che non esiste parola o concetto o discorso che possa restituire a pieno il fiume di pensieri e sensazioni che attraversa un uomo nelle mani della giustizia. La scelta giusta è il silenzio interiore. Fare come Alice, e raccapezzarsi di quello che si vede attraverso lo specchio poco alla volta, osservando e facendosi guidare dal cuore, non solo dalla razionalità.

Sulla mia pelle

E a giudicare dalla platea, il film ha sortito l’effetto voluto. Le facce sono abbastanza sgomente e non manca qualche lacrima; persino noi ospiti e fomentatori del dibattito abbiamo un groppo in gola che ci blocca. La telefonata di Ilaria Cucchi è una vera e propria boccata d’aria; le sue parole di fiducia e di forza ci tirano su e ci fanno vedere una luce alla fine di questo tunnel dell’orrore. I ringraziamenti per il minimo contributo che abbiamo portato alla diffusione di questa storia, ci rincuorano; si capovolgono un attimo i ruoli, perché in realtà dovremmo essere noi a ringraziare questa donna per la sua battaglia, per la sua forza, per aver deciso di non rinunciare alla propria umanità e barattare i propri principi per una vita tranquilla.

“Era meglio se venivo a dormire da voi” – Stefano Cucchi

Una frase banale, che però riesce a tenere in sé tutti i pensieri che attraversano la testa di chi si trova nelle mani della giustizia. Almeno per me così è stato. Pensi a tutte le coincidenze che ti hanno portato lì, e a cosa avresti potuto fare per rompere quel karma bastardo. Ma alla fine sono ragionamenti sparsi e inutili, compagni di viaggio nella solitudine di una cella. Perché le ore in cella da soli non passano mai. Per gli attivisti che mi hanno invitato qui, la mia testimonianza dovrebbe essere paradigmatica di quanto quotidiana possa diventare una situazione limite come quella di Stefano. Che non è così assurdo provare tutto questo sulla mia pelle. E quindi metto i panni del Mario Rossi qualunque, che non ha più una fedina penale pulita, per dimostrare a tutti che non è poi così difficile finire tra quattro pareti sporche di sangue, ad aspettare un processo, in totale sospensione di ogni dignità e diritto. Perché un essere umano non è riducibile ai suoi errori, e anche se ha sbagliato va pur sempre tutelato nella sua integrità e dignità. Parlarne per me non è mai facile. Mi sembra sempre di togliermi un piccolo peso, volta per volta; un peso però che sembra non finire mai. Sono su una nave che imbarca acqua e provo a svuotarla a mani nude, impresa disperata, ma che non per forza è destinata a fallire. Ilaria Cucchi lo insegna.

Sulla mia pelle

Il dibattito è vivo e partecipato, la discussione infiamma e riusciamo con un pizzico di pepe a riscuotere questa comunità sonnacchiosa, che si sta lentamente risvegliando dal letargo in preparazione della stagione turistica. Facce giovani, specialmente, si aprono e condividono con noi la voglia di rompere questa bolla di vetro isolana, di volersi aprire al mondo e abbracciarne la complessità. E il principio è proprio questo: abbattere le distanze. Spaziali ma soprattutto mentali; creare un ponte con la terra ferma, per imparare a leggere oltre le etichette di tossico, migrante, barbone, etc. Distruggere i pregiudizi per ritrovare i figli e le figlie, le mogli e i mariti, i fratelli e le sorelle, persone che soffrono e sperano come chiunque di noi. Nel romanzo che ha ispirato Blade Runner, il killer di droidi Deckard alla fine della sua missione decide di smettere con quel lavoro; si rende conto che l’unica barriera che lo differenzia da un drone, la sua capacità empatica, si è annullata. Lui è un essere umano, lo sa e lo hanno confermato anche gli esami, ma lui non si sente più veramente umano, perché ha dimenticato la sua empatia dentro qualche fascicolo ammuffito. Nei meandri della sua quotidianità, della frustrazione per il lavoro, delle richieste della moglie, delle aspirazioni di una vita, si è perso l’umanità; barattata per uno stipendio fisso e una casa di proprietà.

Leggi anche: Perché Sulla mia pelle è stato un film terribile, seppure terribilmente importante

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