Dis-Oriente – Wim Wenders in Giappone, eroe dei due mondi

Teodosio Di Genio

Giugno 5, 2024

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L’ultimo film di Wim Wenders sembra chiudere un cerchio cominciato dal regista negli anni Ottanta. Un uomo alla ricerca dell’identità giapponese che finirà per trovare la sua.

Nell’anno orwelliano in cui il mondo occidentale si apprestava ad accogliere Michael Jordan, Madonna, il personal computer e l’invenzione del tetris, Wim Wenders decise di partire per il Giappone e girare un documentario su Yasujiro Ozu. Verso la metà di questo suo Tokyo-Ga, il regista scambia due parole con il suo amico Werner Herzog in cima a un alto palazzo dove i turisti potevano osservare la città attraverso i binocoli.

Wim Wenders e Werner Herzog nel backstage del documentario Tokyo-Ga (1984)

«Abbiamo l’assoluto bisogno di immagini che si armonizzano con la nostra cultura, ma a volte bisogna affrontare una lotta dura per ottenerle, bisognerebbe scavare come un archeologo per riuscire a trovare qualcosa in questo paesaggio offeso»

Werner Herzog

In effetti, le inquadrature così fortemente identitarie che Wenders apprezzava nei film come Tokio Monogatari e Il Gusto del Sakè, già quaranta anni fa sembravano far parte della preistoria. La città edochiana si presentava come un agglomerato di luci dal sapore americanizzato: il paese fabbricava il 90% delle televisioni mondiali, per poi mandare in onda i film di John Wayne.

Lo stesso Kurosawa, nella salsa technicolor degli anni ottanta, sembra fondere il teatro kabuki con elementi puramente occidentali: il dramma shakespeariano, la tragedia greca e uno stile vicino al western (anche la produzione è americana), lo portano a trionfare al Festival di Cannes con Kagemusha.

L’interscambio culturale continua nel mondo dei teenagers: se negli Stati Uniti sono tutti pazzi per Karate Kid e i manga giapponesi, nell’estremo Oriente si nota una tendenza opposta. Ragazzini che andavano a Disneyland vestiti alla rockabilly, adulti attaccati compulsivamente ai flipper delle sale Pachinko o che iniziavano a giocare a golf solo per avere un atteggiamento tipicamente occidentale, tra le vetrine dei ristoranti che mostravano pietanze finte ricostruite con gesso e colla.

Il Giappone sembrava essere diventata una fabbrica di plastica.

Cibo finto nelle vetrine dei ristoranti di Tokyo

Ma nella terra dell’Imperatore Wenders ci tornerà qualche tempo dopo, commissionato dal Centro George Pompidou di Parigi, per girare un documentario inaspettato quasi dallo stesso regista. Appunti di Viaggio su Moda e Città – reportage sul celebre stilista Yohji Yamamoto – diventa l’ennesima chance per stabilire un contatto con il mondo nipponico e con il tempo che passa.

«Mi interessa il mondo, non la moda. Ma forse il mio giudizio era prematuro. Perché non dovrei provare ad affrontare l’argomento senza pregiudizi? Perché non considerare la moda come qualunque altro settore, ad esempio quello cinematografico?»

Wim Wenders

Intravede nel taglia e cuci del linguaggio cinematografico suggestioni e parallelismi con l’universo della moda, mostrando due mondi visionari ma allo stesso tempo suscettibili ad obsolescenza. Lo stile cambia e con esso anche lo skyline di un paese post-atomico che iniziava seriamente a internazionalizzarsi. Questa volta l’Occidente non lo si imita, bensì lo si influenza.

I tagli minimalisti e asimmetrici di Yamamoto diventano il mezzo allegorico con cui esportare questa nuova idea di Giappone, un paese double face che si interroga continuamente sulla propria visione identitaria da conservare e trasmettere alle generazioni a venire.

Wim Wenders e Yojhi Yamamoto in una scena di Appunti di Viaggio su Moda e Città, 1989
Moda, musica, architettura e…danza.

Forse senza questo documentario girato tra Tokyo e Parigi, oggi avremo un Wim Wenders completamente diverso. L’essersi spinto al di là dei suoi interessi e delle sue conoscenze lo porta a continuare la ricerca di nuovi linguaggi.

Ad esempio, gli anni a venire saranno costellati di collaborazioni musicali, soprattutto con la band irlandese degli U2 con cui – tra videoclip e colonne sonore per i suoi film – stabilirà un sodalizio che durerà fino all’inizio del nuovo millennio.

Proprio nel confuso e caotico anno del Millennium Bug, l’azienda francese JD Decaux – leader nel settore dell’arredo urbano pubblicitario – incarica Wenders e altri 12 registi di lasciare la propria impronta in un brevissimo cortometraggio in cui ogni autore ha solo 7 secondi di tempo per reclamizzare le luci di una città a scelta. Nel suo micro spezzone di questo Un Matin Partout dans le Monde, i led di una piazza di Amburgo mostrano la scritta “Vedere è credere”.

Frase che rievoca un certo realismo poetico che Wenders inconsciamente sfiora, creando un collegamento immaginario con Jean Vigo e il suo cinema delle immersioni (L’Atalante e Taris o del nuoto). Come il regista francese si trova infatti a girare Somebody Comes into the Light, un documentario sportivo su una sessione d’allenamento di Min Tanaka, ballerino giapponese dallo stile indecifrabile e selvaggio.

«Il bagno è un posto dove siamo tutti uguali: ricchi e poveri, giovani e vecchi, siamo tutti parte della stessa umanità»

Wim Wenders

Con un simile background ormai navigato in ogni arte visiva che si rispetti e con l’ennesimo occhiolino verso il Sol Levante, arriva l’occasione giusta per mettere insieme le tessere di un puzzle cominciato quasi quaranta anni prima: la Tokio Toylet Project avrebbe bisogno di un documentario per mostrare al pubblico l’arte architettonica di questi bagni di nuova generazione sparsi per il quartiere di Shibuya.

Con Perfect Days viene fuori una carezza cinematografica, inusuale in un periodo di cinema urlato e muscolarizzato nato con l’esigenza di stupire. Guardi la vita di Hirayama e viene in mente quell’antico proverbio giapponese che afferma che “un falco che ha talento, non mostra mai le unghie”.

Tornando al 1984, se Wenders avesse fermato uno di quei ragazzi vestiti da Elvis e gli avesse chiesto “Come ti immagini Tokyo nel 2024?” forse sarebbero venute fuori delle suggestioni iper futuristiche e quasi aliene. E invece con questo suo ultimo lavoro siamo tornati a riscoprire i culti storici del Giappone di quasi cento anni fa.

In un posto imbrigliato da un’influenza filo-americana che stava toccando tutta l’Asia, Wenders e Herzog avevano trovato poche immagini tipicamente nipponiche. Qui invece ci sono tutte: il bagno pubblico, la lettura, il cortese silenzio, la musica gentile, l’amore per la fotografia (quella analogica) con la reale funzione di immortalare il presente per poi metterlo da parte.

Stiamo pur sempre parlando di un paese che aveva subito la detonazione di due bombe atomiche e che solo qualche mese dopo aveva già cominciato a costruire il museo della memoria.

L’estrema compostezza nel voler inscatolare il trauma nazionale per esorcizzare i ricordi e ricominciare a vivere finalmente nel presente.

Takashi, Hirayama e Aya ascoltano le musicassette in auto

Se il Giappone è visto come la terra del Sol Levante (The House of the Rising Sun è, ovviamente, nella colonna sonora), in realtà il suo corrispettivo in lingua originale “Nihon” deriva da due kanji cinesi con un significato che si apre a diverse possibilità: gli ideogrammi 日本 indicano infatti “la radice del giorno”.

Il rispetto estremo di Hirayama verso le sue 24 ore, l’attenzione maniacale con cui svolge il suo umile e invisibile impiego di collaboratore sociale per i nuovi bagni della città, l’annaffiare le piante, radersi per bene e leggere libri di poesie altro non sono che un moto di gratitudine verso il fato, il caso che lo vuole ancora ben ancorato a questo mondo. E infatti – questa volta – i grattacieli si guardano dal basso: non si sale sull’Empire State Building di New York (Alice nelle città) o sulla Colonna della Vittoria di Berlino (Così lontano così vicino) sfidando il sole. La luce accarezza il volto dell’uomo non prima di esser stata addolcita e filtrata dalle foglie degli altissimi e freschi rami degli alberi.

Una piccola sfida contro ignoti

In una delle tante scene al lavoro, colpisce quella di un foglietto ritrovato per caso tra un lavello e un muro: una partita a tris apparecchiata da chissà chi, che chiede soltanto di giocare insieme a lui, facendo le proprie mosse scandite in più giorni. Un antico modo non invasivo di entrare a contatto con una vita segreta e silenziosa e rispettarne i tempi dell’attesa, in un mondo così fulmineo e pratico.

Hirayama e la scena del tris in Perfect Days

In un paese dalla scrittura indecifrabile e da un’umiltà fuori dalla norma, l’ordinata routine di Hirayama diventa uno stile di vita: anche perché la prima cosa che i maestri insegnano ai bambini giapponesi è quella di non affrettare i tempi e di non scrivere i loro bei “geroglifici” partendo da un tratto qualsiasi.

Ogni segno sul foglio ha una sua importanza, un suo ordine e una sua incredibile dignità.

È questo che prova a insegnare alla sua nipote Niko che viene a trovarlo inaspettatamente. Non si va al mare oggi, ci andremo un’altra volta. La partita di tris finisce con il più classico dei default: non vince nessuno, ma ci si ringrazia con un inchino immaginario e una meravigliosa eleganza. Wenders ha fatto pace con il vento che soffia tra le piante di quella città. D’altra parte, se Karate Kid ci insegna a vincere domani, oggi ci si può accontentare anche di uno 0-0.

Se Karl Schleffer additò Berlino come una città condannata a diventare e mai a essere, forse il suo portavoce Wim Wenders vede nel cambiamento e nella molteplicità la sua dote migliore. E come Hiramaya e come la stessa Tokyo, ridisegna un concetto di identità frammentaria a cui forse mancava solo quest’ultimo tassello.

Leggi anche: Wim Wenders e Jack Kerouac – La trilogia della strada

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