Scene da Oscar – C’era una volta a Belfast

Davide Capobianco

Marzo 20, 2022

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Belfast è l’ultima fatica del bardo di Hollywood Kenneth Branagh, tornato in sala per raccontarci una favella nuova, anzi per raccontarsi e guarire, più precisamente.
Dai colori della Belfast del presente passiamo al bianco e nero del passato del regista, della sua infanzia: la pellicola è, infatti, una sorta di autobiografia. Branagh guarda alla sua gioventù nell’Irlanda del Nord e cerca di darle vita, ma soprattutto, come dicevamo, di guarire. Belfast non è solo un dolce ricordo, ma un personale tentativo di elaborare i traumi di un piccolo e innocente bambino costretto ad abbandonare la propria casa.

Kenneth Branagh ritorna per fare quello che sa fare meglio: raccontare di individui che hanno smarrito la strada, che hanno perso le risposte, se ne sono andate o sono rimaste, ma in uno spazio-tempo che non sanno riconoscere.

Kenneth Branagh (a sinistra) e Jude Hill sul set

Tra la verità e la leggenda, vince la leggenda

Per chi non l’avesse riconosciuta, il titolo del paragrafo fa riferimento alla citazione più famosa de L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford (1962), di cui Buddy (alter ego infantile di Branagh) guarda uno spezzone in tv.

Belfast rende subito omaggio al cinema e alle modalità narrativizzanti del bambino protagonista di guardare alla realtà.

In una città in cui il lavoro scarseggia, la violenza imperversa e la realtà non ha nulla da offrire se non dolore e morte, la mente del ragazzino trova la sua fuga nell’arte, nel cinema. E allora una mamma che imbraccia un coperchio della spazzatura diventa, agli occhi del piccolo Buddy, una sorta di Captain America, che si fa largo proteggendo il suo bambino.

Non solo, tuttavia, vi è un rimando ai film di supereroi tramite questa iconografia, bensì anche la retorica della telecamera inscena ralenti e movimenti circolari che rimandano a solennità ed epica hollywoodiane (vedasi The Avengers o Thor, diretto dallo stesso Branagh).

Belfast, in generale, si fa forte di una variegata contaminazione linguistica, che prende da generi e sottogeneri della settima arte. Branagh è ancora quel bambino innamorato della meraviglia, di quei colori che il cinema dava in un mondo grigio di sofferenze e sentori di abbandono.

Il momento in cui il padre affronta lo strozzino di quartiere – sulla strada, come in un duello, con la polizia che crea l’arena – non è solo un omaggio al cinema western, ma il modo in cui Buddy vedeva il suo papà.

Jamie Dornan (il padre) nella scena del duello

La leggenda vince perché non solo noi percepiamo il mondo in maniera eminentemente narrativa, ma perché vi è un conforto magico nel mito, nel racconto. Quando la tua città ti volta le spalle, non ti fa sentire al sicuro, quando la tua gente si abbandona alla follia della violenza, non puoi non trovare conforto nel Gary Cooper di Mezzogiorno di fuoco, che getta la sua stella da sceriffo e se ne va dal suo paese, verso un destino incerto, perduto e senza una meta, senza uno scopo.

I film ci sono sempre stati per Buddy, per Kenneth Branagh, ed è la sua macchina da presa che ce li riporta: piano americano sulla figura del padre, campi larghi, panoramiche, ed è subito western, il genere che più di tutti è epica, mito e fiaba, nonché uno dei primi veri generi della storia del cinema.

In suddetta scena, tuttavia, si nasconde l’altro grande amore di Branagh, il primo in realtà, il motivo per cui lo chiamano “il Bardo”. Molte scene di Belfast, se notiamo, risultano inverosimili, plastiche e artificiose, quasi costruite come un set.

I poliziotti in attesa con i loro scudi, senza intervenire minimamente, lasciano due civili a risolvere i loro conti in sospeso? Alquanto improbabile.
La stessa città, poi, sembra limitarsi in realtà a una strada e pochi interni. Eppure c’è una spiegazione.

belfast
Buddy (Jude Hill) al cinema

Never doubt I love

Belfast si fregia dell’unità di luogo (la strada) di aristotelica memoria, perché ancor prima di essere un regista, Kenneth Branagh è un regista di teatro. Un drammaturgo che vanta innumerevoli adattamenti di Shakespeare per il grande e piccolo schermo, stesso discoro per Harold Pinter. Non è un caso che sovente Branagh sia chiamato anche solo come attore: le sue qualità sono teatranti, ancor prima che cinematografiche.

Belfast racchiude tutto questo in quella strada, in un compendio di ciò che è stata la carriera di Branagh. Infatti, a un certo punto, vediamo persino un libro di Agatha Christie e un fumetto di Thor. Quel Thor che lui rese Amleto, erede al trono ferito, tradito da un fratello, ancora indeciso e titubante.

Erik Selvig: «Non è una brutta cosa rendersi conto che non si hanno tutte le risposte. Poi cominci a fare le domande giuste».

I temi di quel cinecomic così facilmente dimenticato, in realtà, non sono tanto distanti da Belfast. A volte arriva il momento di mettere in discussione tutto e ricominciare da capo. Se questo compito, però, spetta a un bambino di otto anni, con ogni probabilità ciò diventa un lavoro insopportabile e traumatico.
Tuttavia, l’ultima canzone della pellicola si intitola And the healing has begun di Van Morrison, la guarigione è cominciata. Dunque, forse, esiste una possibilità di ritrovarsi.

Kenneth Branagh sembra esserci riuscito, facendo quello che sa fare meglio: raccontare una storia. Belfast non è un film perfetto, ma narra di ciò che davvero riesce a Branagh: amare una storia. Di questo non si può dubitare. Da questo amore, forse, è possibile ripartire, accettando il proprio smarrimento.

Erik Selvig: «Chiunque voglia trovare la propria strada in questo mondo, deve cominciare ammettendo di non sapere dove si trova».

«Per coloro che se ne sono andati, o che sono rimasti. Per coloro che si sentono persi». Con queste parole termina Belfast e inizia Kenneth Branagh, il bardo di Hollywood.

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