Eternal S.U.N.S.H.I.N.E. of the Spotless Mind – Rancore tra i ricordi

Edoardo Wasescha

Aprile 16, 2021

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L’infinita letizia della mente candida (“eternal sunshine of the spotless mind”), sublime espressione saccheggiata del suo significato nella “traduzione” italiana (Se mi lasci ti cancello), è quella non viziata dalla luce dei ricordi, quali splendenti soli che illuminano la memoria, centro di gravità della coscienza di sé. Attratti da un siffatto campo gravitazionale, Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004), pellicola diretta da Michel Gondry, e S.U.N.S.H.I.N.E. (2015), pezzo del rapper Rancore, vi orbitano intorno con i loro pianeti, la cui atmosfera rarefatta si dipinge di immagini, rime, tristezza e reminiscenze.

L’oblio non cessa mai di rincorrere i protagonisti del film, vittime e carnefici della propria memoria, così come, tra gli strati di significato del testo della canzone, ogni rima sembra inseguire la manifestazione empirica che permette l’identificazione – almeno dal nostro limitato punto di vista – fra essenza ed esistenza. Non è possibile slegare il sole dalla luce che emana e, similmente, non è pensabile la scissione del ricordo, come costrutto, dall’oggetto che lo abita. Nondimeno, senza Clementine, nella memoria di Joel non esisterebbe il ricordo di Clementine intenta a punzecchiarlo sull’accezione di “carina”, da lui utilizzata come passepartout di ogni discussione.

Certamente, se l’oggetto del ricordo definisce le condizioni di esistenza del ricordo medesimo, lo stesso non può dirsi dell’effetto, che è invece definito, funzionalmente parlando, dalla sua causa. Eppure l’accento, lungo i toni alti e i toni bassi dell’incredibile opera che è il mondo dei fenomeni, è posto su ciò che qualifica piuttosto che su ciò che identifica.

Clem in “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”

«Rasserenati dall’amare il sole

Tu non devi venerare il sole, ma la luce che vedi».

(Rancore, “S.U.N.S.H.I.N.E.”)

Con un imperativo categorico, Rancore dissipa la coltre illusoria che spesso offusca uno sguardo non abituato a criticizzare la distanza fra l’immagine e la percezione dell’immagine. Non esistono osservazioni neutre, perché c’è sempre un punto di vista, un’aspettativa teorica, che ne anticipa il movimento percettivo. Fuorviante sarebbe, dunque, tentare di comprendere l’artista – l’immagine dell’artista – senza scorgerne, come emanazione del riflesso, l’abilità «a usare puntine e pu-pu-puntare alle rime».

Una simile distanza, se tra le rime di Rancore in S.U.N.S.H.I.N.E. viene parzialmente colmata, in Eternal Sunshine of the Spotless Mind è radicata ben più in profondità, perché circoscrive non un’immagine, ma un’idea.

Joel verrà sempre messo in guardia da Clementine, e sempre finirà per lasciarsi travolgere dallo scarto emotivo che intercorre tra la persona amata, corruttibile, e l’idea della persona amata, incorruttibile; scarto che gradualmente e inevitabilmente si espanderà fino a contrarsi poi in delusione. Lo smemorato, ben lungi dall’essere beato, avendo la meglio sui propri errori, è condannato piuttosto a ripeterli ancora e ancora, tradito sempre da quell’amore che nutriva per l’idea della persona amata, anziché per la persona amata stessa.

Eternal Sunshine of Spotless Mind, scena finale

Clementine: «Io non sono un’idea, Joel, ma una ragazza incasinata che cerca la sua pace mentale, non sono perfetta».

Joel: «Non riesco a vedere niente che non mi piaccia in te, ora non ci riesco».

Clementine: «Ma lo vedrai, ma lo vedrai! Certo col tempo lo vedrai, e io invece mi annoierò con te, mi sentirò in trappola perché è così che mi succede».

Il dialogo di chiusura della pellicola, che termina con un «ok» dal significato quasi-metafisico, ricrea la conversazione che aveva aperto la loro storia d’amore in quella libreria, dove Clementine aveva già preso le distanze dall’idealizzazione che Joel avrebbe fatto della sua persona.

Non solo il punto di arrivo della pellicola è anche il punto di partenza della loro relazione, ma lo è sempre stato e sempre lo sarà. Eterno, invero, è il ritorno dell’uguale, il più abissale dei pensieri nietzschiani, «perché il mondo è rotondità», conferma Rancore, e ogni frammento dell’esistenza attraversa l’inizio e la fine innumerevoli volte.

Verde, rosso, arancione e blu, a rappresentare il volubile umore di Clementine, un caleidoscopio di colori emotivi che restituisce, simmetricamente, le immagini dell’amore costruite artificialmente da Joel, le quali, una dopo l’altra, nascono, bruciano di passione, appassiscono e muoiono, per poi rinascere nuovamente, esattamente come una sinfonia di stagioni orchestrata dal tempo.

Il legame fra il colore dei capelli di Clementine, il suo stato d’animo e l’idealizzazione di Joel, inesorabilmente consumata dalla realtà, incontra lo stesso paradosso che in S.U.N.S.H.I.N.E. Rancore raccoglie attraverso la relazione, intrinseca o estrinseca, che si ha con la luce.

S.U.N.S.H.I.N.E.

S.U.N.S.H.I.N.E., Rancore

«Essere belli come il sole non serve

Se non brilli più di luce riflessa, perché».

(Rancore, “S.U.N.S.H.I.N.E.”)

L’illusione di poter vivere della luce emessa da altri corpi celesti, o da altre anime terrene, si scontrerà sempre con il disincanto di un riflesso non in grado di riempire il vuoto in fondo all’anima. Inutile, dunque, costruire un’idea che possa illuminare la propria identità, affidando la risposta a domande esistenziali, non tanto agli altri quanto a loro proiezioni. Sarà sempre la più magra delle consolazioni per non essere riusciti, o peggio non averci provato, a emettere luce propria.

Invero, le anime buie che non si sono liberate del vuoto che le riempie sono destinate a inghiottire ogni particella di luce che giunge loro, financo la fonte di luce stessa. Non rimarrà altro, infine, che un ricordo a emettere luce, sempre più fievole, finché, una volta spentosi del tutto, tornerà l’oblio.

Paradossalmente, Joel se ne rende gradualmente conto ripercorrendo la propria storia d’amore inversamente, tessuta fra ricordi pian piano scuciti dal vestito mnemonico. Il rancore si ritrasforma in amore, l’incomunicabilità in complicità, come se il tempo cicatrizzasse ferite non ancora aperte. Ma la consapevolezza di una redenzione fine a se stessa, che di lì a poco sarebbe stata ridotta in polvere, annulla l’effetto catartico generato da una storia d’amore al contrario, iniziata con la sua conclusione.

«How happy is the blameless Vestal’s lot! / The world forgetting, by the world forgot / Eternal sunshine of the spotless mind! / Each pray’r accepted and each wish resign’d».

(Alexander Pope, “Eloisa ad Abelardo”)

La poesia di Alexander Pope, fil rouge dell’intera pellicola, coglie la tridimensionalità dei ricordi, definiti da coordinate emotive, razionali e inconsce. Joel naviga a vista nel proprio inconscio, non riuscendo a vedere altro che confini sbiaditi. Girovagando tra i pezzi di vita ai quali àncora la propria coscienza, riesce a (ri)accendere emozioni – positive e negative – che aveva spento dentro di sé, con il catartico aiuto della proiezione di Clementine. Tuttavia, neppure il tentativo di aggirare razionalmente il proprio inconscio, sfruttandone i punti ciechi, riuscirà nel fine di salvare l’amata idea dall’oblio.

Joel e Clem in Eternal Sunshine of the Spotless Mind

Il pensiero tridimensionale, altresì, viene portato alla luce in molti dei testi della produzione di Rancore, ma in S.U.N.S.H.I.N.E. una simile tridimensionalità si tinge d’inchiostro ermeneutico.

«Dai, come vivi senza colpevolezza

Se hai consapevolezza della realtà

Mike dammi una base, che io ci scrivo un’altezza

Li colpiremo in profondità».

(Rancore, “S.U.N.S.H.I.N.E.”)

Giocando sull’ambivalenza semantica della parola “base” – elemento costitutivo di una canzone e, parimenti, elemento bidimensionale definito dalle coordinate spaziali lunghezza e larghezza – l’idea del rapper romano è quella di scrivere un’altezza, necessaria a percepire la profondità. Con questa terza coordinata spaziale si accede, infatti, alla tridimensionalità, che, uscendo dall’universo strettamente fisico-matematico, fa riferimento alla modalità di pensiero; modalità che Rancore intende risvegliare in tutti coloro che lo ascoltano, colpendoli in profondità con affilate rime.

Svestita la natura geometrica e indossata quella sensoriale, adesso i ricordi appartengono a Joel e Clementine come elementi esterni, filtrati dai rispettivi contenuti audio. Eppure, qualche minuto di registrazione racconta loro chi sono più di quanto abbiano mai provato a chiedersi. Non resta, allora, che mettere in pausa l’idea di aver conosciuto una persona e iniziare a conoscerla veramente. Quella persona è, in primis, la propria persona, presupposto insostituibile affinché sia possibile conoscere – ed eventualmente amare – l’Altro.

S.U.N.S.H.I.N.E.

Joel e Clem

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